lunedì 18 giugno 2012

La chiave d'accesso: CAPITOLO 4 "La politica"


Giovedì 9 febbraio : La politica


La vita è come un autobus:
per quanti stronzi ci possano essere dentro,
uno può sempre guardare fuori dal finestrino.


Ero arrivato a questa conclusione una domenica mattina della primavera precedente. Avevo sentito l'ennesimo padre di famiglia, accompagnato da elegantissima signora e dessert di figli laureandi di quelli di tipo "fiore all'occhiello", che, vestito in maniera troppo giovanile, si lamentava dell'assenza della popolazione autoctona nella grande piazza invasa dal sole. "Ormai ci sono solo indiani, rumeni e napoletani", sbuffava. Ne parlava come se gli abitanti del posto, quelli veri, fossero stati rapiti e venissero tenuti legati con la fronte premuta sul vetro delle finestre che si affacciavano sulla piazza. Costretti a subire lo spettacolo disgustoso della diversità. Cosa stai dicendo, amico? La cosa mi sembrava ancora più assurda in quel contesto rurale, in cui la varietà tonale e la serenità familiare completavano un quadretto che io , personalmente, trovavo dolcissimo. "C'è da avere paura", diceva. Scambiava sguardi d'intesa con altri membri del suo ingroup, come se fosse in balia degli eventi. "Stiamo perdendo la nostra identità". Si lamentava. Non ho mai capito a quale identità fanno riferimento queste persone. Mi era difficile pensare allo stereotipo, sicuramente esagerato, dell'uomo del posto: grandissimo bestemmiatore, decisamente poco acculturato, il cui valore è dettato, di fronte ai suoi simili, dal numero di volte in cui al mese si è vomitato addosso per le sbronze. "Cazzo – pensai – speriamo proprio che qualcuno li fermi questi negriterroni!" Che peccato sarebbe, per tutti noi, perdere la nostra identità. Di certo, questi rispettabilissimi signori, non pensano mai alla tragedia che la scomparsa degl'immigrati causerebbe alle loro discussioni e alle loro feste, cosiddette, tradizionali. Non avrebbero più niente da dirsi, c'è da scommettersi. Non sarebbe più facile accettare la diversità e farne uno strumento? La cosidetta identità non è forse frutto degli eventi? Non deriva forse dalle esperienze di questa gente? E non sono anche queste esperienze? Per quale motivo dovremmo, così piccoli e nudi, tentare, tenendoci per mano, di arginare il fiume della storia? Per salvare che cosa? Finiremmo coll'annegare abbracciati, orgogliosi della nostra similarità. E questo, purtroppo, succede ogni giorno.
Per fortuna una soluzione a questo indomabile fastidio esiste: guardare fuori. Rendersi conto dell'indicibile grandezza dello spettacolo che ogni giorno ci viene offerto da chi di dovere. Chiamiamolo Dio. O Balù, non che faccia differenza. La bellezza del mondo, così grande rispetto allo schifo dell'uomo, che quasi quasi se ne fotte.

Giovedì 9 febbraio mi ero svegliato incazzato. Avevo sognato l'amore ed ero rimasto deluso, una volta aperti gli occhi. Che ingiustizia, i sogni. Preti pettegoli a cui è impossibile mentire. Non mi sentivo assolutamente in colpa per aver driblato il seminario. "Che si fottano", pensavo ingenuo. Come se non avessi bisogno anche di quegl'insegnamenti, per quanto inutili. Decisi comunque di andarci, mi serviva una giustificazione. "Sono stato male", perfetto. "Finalmente sono stato bene", avrei dovuto dire.

Arrivando nel piazzale centrale del parco, vidi il giovane sorridente. Se ne stava in piedi a camminare in tondo, in un circolo vizioso senza fine. Parlava tra sè e sè:

"Ad Ostia si ostinano ad ostinarsi, sbattere la testa contro il muro. L'essenza nel fermo mento o nel cambiamento? Prego il divenire gli chiedo di venire. L'adattarsi sempre sempre sempre ma nessuno vuole non avere ragione, avere il torto. Arriva un tordo, loro lo sanno. Il soldo ha assoldato misero l'esercito esercita il demonio. Esercizi, per il demonio. Ne abbiamo bisogno? La soldisfazione piuttosto. Anche attraverso strumenti fermi nel tempo, elaborare il divenire. Fermi cambiamenti nei tempi. E hai risoltoi tuoi problemi, i nostri problemi, i problemi di tutti."

Mi avvicinai per farmi vedere, mi vide. Salutai, non rispose. Decisi di rispondere a tono :

"Capisco quello che intendi. Sistemi politici si ostinano a presentarsi fermi di fronte a una società che, inevitabilmente, è in movimento. In totale e costante cambiamento. Come può un insieme di regole ferme essere applicata ad un'entità viva che, continuamente, si divincola mossa dal solletico del progresso? Hai ragione. Ora capisco perchè sembrano sempre così vecchi, erano già vecchi quando sono nati. Quando sono stati nuovi, questi sistemi, per un po' hanno funzionato. Tutti, all'inizio, hanno funzionato. E poi rovina. Il cambiamento dunque.Ma come attraversarlo? Come vivere il passaggio? Come addomesticare il divenire al nostro servizio?"

Mi sembrava per la prima volta di parlare al suo livello. Non capivo bene come ma avevo interpretato il suo pensiero nonostante la sua incoerenza grammatica e di concetti. Ci stavamo intendendo, ne ero sicuro. La cosa mi faceva sentire ancora più vivo. Attesi per qualche secondo una risposta che, puntuale, arrivò.

" Hai proprio passato il passo del Gransasso amico. Come fidanzare la stasi e il movimento mi chiedi. Non dovresti chiederlo a me mi viene da venire, da dire. Terzo me, la scienza abbraccia questo dilemma e ne fa notti insonni. La ricercazione! Loro lo sanno. Le uniche regole ferme che ci servono sono quelle per le cose non ferme. Per il movimento. Regole ferme e mutabili allo stesso tempo, capaci di autodeterminarsi nel tempo. Loro lo sanno credimi. Sono norme come orme, sui passi del progresso. Una serie di storie che permettono di rendersi conto dei cambiamenti, di interpretarli e di adattarsi."

Non ci avevo mai pensato. Tutti si ostinano a riproporre sistemi che sono già stati usati e che hanno già fallito. Nessuno si rende conto del cambiamento. Nessuno è disposto a cedere un po' del proprio potere per il mutamento, unico motore della società che, costantemente, si muove. A ciclio continuo appaiono sullo schermo sempre gli stessi volti. Non che questi abbiano sbagliato in passato, non che siano stati bravi. Non divremmo dire "bravi", perchè tutti siamo conseguenza di quello che abbiamo vissuto, non dovremmo parlare di "cattive intenzioni" perchè ogni intenzione non è cattiva per chi la mette in atto. Dovremmo imparare a distinguere chi ha le qualità per governare e, nel senso più buono del termine , servirsene. Servirsene finchè è in grado di farlo e poi salutarsi. Senza rancore, amici come prima. Bisognerebbe formulare una volta per tutte una serie di criteri universali di cambiamento. Valori oggettivi che determinano la fine delle epoche e che ne dettano l'evoluzione verso il benessere di tutti gli uomini. Risposi con poche semplici parole ma che volevano dire tutto:

"Esatto, ci siamo capiti."

Non avevo potuto fare a meno di notare, mentre lo ascoltavo, che quello che lunedì mi era sembrato un blaterare senza senso giorno dopo giorno prendeva sempre più la forma di un discorso coerente, compiuto e grammaticalmente corretto. Questa evidenza appariva ancora più stravagante se considerata dal punto di vista delle mie emozioni. Mi sembrava che non fosse lui a diventare più chiaro ma che fossi io che, giorno dopo giorno, imparavo a decifrarlo. Decisi di salutarlo recitando a memoria un passo di Fernando Savater:


"D'altronde - dissi - non è la politica che provoca i conflitti: buoni o cattivi, vivificanti o mortali, i confilitti sono sintomi che fanno necessariamente parte della vita in società..e paradossalmente confermano quanto siamo disperatamente sociali."

Mi guardò complice. Che bella sensazione. Camminai verso il seminario quasi trionfante.

Nessun commento:

Posta un commento