domenica 17 giugno 2012

La chiave d'accesso: CAPITOLO 3 "La giustizia"


Mercoledì 8 febbraio : La giustizia

Quando ci si ritrova nudi di fronte alle proprie responabilità quasi mai si riesce ad abbracciarle. L'amor proprio sotto forma di panico e fragilità ci suggerisce in silenzio di schivarle, di fuggirne via. E così facciamo, trovando, con straordinaria abilità e fantasia, soluzioni impossibili. E che talento abbiamo tutti in questo, millenni di evoluzione racchiusi in semplici gesti. Quel timore esistenziale, il "dolore di esistere" che costringe un numero incredibili di giovani a rinunciare al rischio dell'amore, che li porta ad amare oggetti inanimati che non possono intaccare la loro autostima, in quanto morti. Questi, colpevoli di silenzio, contagiano l'essenza del loro vivere, stuprandoli in focose notti di xbox e droghe leggere. L'impotenza acquisita, vero male del nuovo secolo, sarà forse il motivo dell'estinzione dell'uomo. La voglia di non vivere, alla fine ci ammazzerà e , tutto sommato, io non ci vedo nulla di strano. Se il capitalismo ci vuole oggetti, oggetti saremo, senz'anima finiremo imbevuti di trasgressione, un marchio registrato impresso a fuoco sul petto e, finalmente, senza limiti. Svegliatomi, evidentemente di buon'umore, pensavo a tutto ciò mentre schiacciavo il tasto "play" dello stereo, in riproduzione "Il Suicidio del Samurai", capolavoro infinto dei Verdena. Avanti così.
Regalandomi un bis di sorpresa e gratitudine, ricordai quasi subito la ventata di benessere che ero riuscito a sfiorare il giorno prima, estasi perfetta in acquarelli vegetali. Ne volevo ancora. Dio quanto ne volevo ancora. Nonostante il freddo uscii sul davanzale in mutande, il vento gelido mi accarezzava per darmi il buongiorno. "Buongiorno a te", sussurai. Avevo riconcquistato la capacità di concentrarmi sul presente, ero parte del mondo, di nuovo. Ne volevo ancora. Questa sensazione di vita, me ne rendevo conto, era per me intimamente e segretamente collegata agl'occhi di quel ragazzo nel parco. Quanto lontani e quanto vicini eravamo stati in quell'incrocio di sguardi. Quante novità silenziose nella mia vita, da quel momento. Era strano come, camminando verso il parco per la terza volta quella settimana, mi guardavo intorno cercando negl'occhi della gente che incrociavo un riflesso di me che mi aspettavo diverso. Pensavo che se avessi incontrato un amico, non mi avrebbe riconosciuto. Mi sentivo altro rispetto a prima, ma questo ormai l'avrete capito.

Quando arrivai nel centro del parco, dove quattro strade si incontravano in una specie di piazzale, trovai il mio maestro seduto composto sulla solita panchina. Sembrava più umano delle altre volte, aveva le labbra leggermente serrate e una goccia di saliva le univa riflettendo il verde degl'alberi. Portava un paio di jeans consumati con degli strappi all'altezza del cavallo e un maglione scuro da cui spuntava il collo di una polo bianca. Sembrava assente. Mi avvicinai e, decidendo di mostrarmi compassionevole, mi sedetti al suo fianco. Il timore di uno scatto improvviso mi parlava da lontano, come l'eco delle parole di un padre premuroso. Non fece nulla, come se non ci fossi. Decisi di prendere l'iniziativa, gli ero riconoscente e volevo assolutamente dirglielo:

"Sai, devo ringraziarti. Le tue parole di ieri mi hanno scosso. Non so se era tua intenzione farlo ma hai risvegliato in me qualcosa che dormiva da anni..."

Sorrise beffardo. Facendolo la goccia di saliva si allungò fino a sdoppiarsi in figlie che raggiunsero ognuna un labbro diverso. Teneva lo sguardo fisso in avanti, come fosse cieco. Mi sentivo un imbecille, forse avevo osato troppo o troppo poco, pregavo per un gesto risolutore. All'improvviso parlò:

"La primavera porterà una gazza una ragazza Giustina il nome..Giustezza - parlava sottovoce e dovetti avvicinarmi allungando il collo per sentire – ella si sdoppia in ogni momento e le sua parti partono per porti in un parto che le riavvicina sempre. Una ondeggia onda tra l'uguaglianza e la singolarità per poi tornare e tornare tornare l'altra è ferma ma di forma mutevole e muta matta di certo la legge si legge appunto a punta patente a punti la soluzione è nell' individualità del rapporto con gli altri mangiare le more..le more! Si muore si muore ma le more l'amore è così..tutti si muore tutti l'amore!"

Infine mi guardò come per chiedermi se fosse tutto chiaro. Feci un gesto come per dire "così così". L'accostamento del concetto di giustizia (mi era sembrato si parlasse di quello, e avevo ragione) a quello di amore mi aveva ricordato un filosofo francese, Jean-Luc Nancy, che in una conferenza a dei ragazzini delle medie, parlava dell'amore come termine ultimo e risolutore della questione della giustizia, o almeno di quella morale. Esso è l'unica cosa che , universalmente, è giusto riconoscere a tutti, in quanto se ne siamo privati inevitabilmente ci uccide. Sì ma che cos'è l'amore? L'amore è riconoscimento, viene detto, e io sono d'accordo nel pensare a questo come il diritto di ogni uomo di essere uomo, di poter godere di dignità, sempre e comunque. Questo atto d'amore dev'essere, da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo, infinito. Non esistono criteri di età, razza, orientamento sessuale, politico. Siamo tutti sulla stessa barca, e stiamo affondando, cantava qualcuno. Il diritto alla vita quindi, da un punto di vista giuridico, deve valere quanto il diritto alla morte, e su quello non è che si possa fare poi tanto i furbi. Non ci sono cazzi. Avevo pensato tutto questo spezzando le parole in un continuo accavallarsi di pensieri troppi veloci per essere detti. Mi accorsi di avere lo sguardo fisso nel vuoto, decisi di dire qualcosa, come per rompere un imbarazzo che non c'era.

"Nel senso che la giustizia dev'essere uguale sia per me, che per te, che per tutti?" Già dicendolo, mi ero sentito un idiota. Il ragazzo mi guardò e con aria quasi seccata disse:

"Perchè quale differenza c'è tra me e te?"

Colmo di vergogna mi scusai balbettando mentre lui si stava già concentrando su altro, mi sembrò che stesse seguendo una coraggiosa farfalla con lo sguardo. Ne approfittai per eclissarmi nell'ombra dei cipressi. Decisi di non presentarmi al seminario, mi sembrava inutile. Tornai a casa pensando di avere la febbre. Lanciai la tracolla e il peso dei libri le fece fare un gran tonfo sul pavimento di finto marmo. Avevo fretta. Dovevo ripendere in mano quel libro. Lo trovai dopo qualche minuto, sul fondo della libreria, colmo di polvere, graffiato da milioni di "tatuaggi e cicatrici" in forma d'appunti. Aprii a pagina 28, lessi:

"Questo riconoscimento dev'essere infinito; è un riconoscimento che non può avere limiti. Esso è dunque, in fondo, impossibile da realizzare interamente – impossibile da aggiustare. Possiamo dire, dunque, che essere giusto non è pretendere di sapere cosa è giusto; essere giusto è pensare che ci sia ancora più giusto da trovare o da comprendere; essere giusto è pensare che la giustizia è ancora da compiere, che essa può esigere ancora di più e andare ancora oltre."

Dunque, come spesso mi succede, avevo ricordato l'incipit ma mi ero perso la parte più interessante. Pazienza, per fortuna l'avevo ritrovata e adesso, di certo , non l'avrei più dimenticata. Ringraziai qualcuno di imprecisato guardandomi attorno, dissi "grazie". Ormai ci avevo fatto l'abitudine.

Mi gettai stanco sul letto, nonostante fosse ancora mattino e qualcuno, sicuramente, stava ancora facendo colazione. Altri, di sicuro, smaltivano sbornie e rifacevano l'amore per dimostrare che quella notte non era stata un errore. Me li immaginavo toccarsi cercando di non guardarsi. Accessi lo stereo, selezione random. Traccia numero 143, il cantante dei Wilco sussurrava:

"...Please be patient with me...".

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