venerdì 29 giugno 2012

Il primo uomo


Di Gianni Amelio, 2011.
Tratto dal romanzo incompiuto di Albert Camus, il film, ambientato negli anni '50 narra il ritorno in patria (Algeria) di Jean Cormery, scrittore e giornalista residente in Francia. La vista delle persone e dei luoghi a lui più cari suscitano al protagonista una serie di ricordi che vengono portati sulla scena con delle riprese intensamente espressive. Nel film i dialoghi sono pochi e semplici, poiché sono le inquadrature a parlare da sole. Esse ci raccontano la povertà, l'amore materno, i conflitti tra culture etniche differenti trasportandoci dentro il mondo privato di Cormery senza mai cadere nel patetico.
Ad un certo punto del film lo scrittore si rivolge a sua madre dicendo: "Che ne dici se un giorno scrivessi un libro su di te mamma?", lei risponde: "Non so leggere". L'infinita grandezza della semplicità racchiusa in due battute.

mercoledì 27 giugno 2012

Come può uno scoglio arginare il mare?


http://www.comune.monfalcone.go.it/contenuti/bo_lista_multiple_contenuti.asp?ambiente=comune%20di%20monfalcone&area=unica&sezione=Struttura%20Portale&Destinazione=menu%20livello%201&LINGUA=italiano&area_default=unica&sezione_default=Struttura%20Portale&Destinazione_default=news&dato_default=id_contenuti&contenuto_default=42584&tipo_template_default=D&bo_percorso_navigazione=%20%3E%20@@@

Recentemente ho letto sul quotidiano "Il Piccolo" l'articolo riguardante le future normative riguardanti l'ordine publico del centro città del comune di Monfalcone. Divieti di vendita di alcoolici per asporto (bottiglie di vetro ma anche lattine) dopo le 21 se non sbaglio, multe salatissime per chi dovesse essere pizzicato a farsi una birra (cit. alcoolici di qualsiasi gradazione) per strada. Tutto permesso invece se la bevenda viene consumata all'interno di un bar. Forse sarò l'unico ma io  in queste direttive ci vedo il crollo definitivo della ragione, o se non altro il crollo definitivo di una classe dirigente. Certamente tendo ad ingigantire il problema ma ho ragione di credere che i principi di fondo che sottostanno a  certe decisioni siano poi generalmente trasferibili e trasferiti ad altro tipo di decisioni. Nell'articolo si legge che una delle motivazioni principali di questo modus operandi sia la, sempre più preoccupante, questione della sporcizia (in particolare lattine e bottiglie vuote) lasciata da abituali consumatori negli spazi pubblici cittadini. Niente di più bello, niente di più giusto. Quale sia il nesso logico però, io proprio non lo capisco. Ci sono delle persone che commettono delle mancanze nei confronti della legge e soprattutto degl'altri cittadini sporcando luoghi pubblici; spesso queste persone sono abituali bevitori low cost e lo sporco che effettivamente si lasciano dietro spesso consiste in bottiglie e lattine. La conclusione naturale di questo discorso sarebbe una bella normativa che vieta di sporcare gli spazi pubblici (ovviamente una normativa del genere esisterà già) e che minaccia di sanzionare in modo pesante chi non rispetta questo divieto. E invece no. Nonostante sia evidente che l'impiego di forze dell'ordine sarebbe lo stesso, si decide per un altra via d'intervento: multa per chi, semplicemente, beve una birra in bottiglia al di fuori di un bar. Una persona non può andare nel suo bel negozietto di alimentari, prendere una birretta fresca dal frigorifero e sorseggiarla passeggiando tranquillamente per le vie del centro in una bella serata estiva. Perchè? Per colpa di pochi, a quanto pare, devono pagare tutti. Questa , a mio parere, non è una mossa intelligente in un comune con grosse tensioni sociali in cui l'equilibrio tra le parti e generale è spesso al limite del collasso. Qualcuno tra i coloro che hanno operato queste decisioni potrebbe persino rigirare la questione su una prospettiva etica e salutista. Il problema dell'alcoolismo è una piaga della nostra società e va combattuto. Di nuovo, nulla di più bello, nulla di più giusto. Il problema però è che tutto questo discorso non vale se si considera invece che, allo stesso tempo, una persona può in qualsiasi momento della serata chiudersi in un bar e bere quante birre vuole. Si potrebbe allora dire che è un problema di tipo economico: i negozietti di alimentari in centro restano aperti fino a tardi e , intelligentemente, la gente pensa bene di andare a prendersi la birra in questi negozietti piuttosto che farlo in un bar dove, inspiegabilmente, costa tre o quattro volte di più. Uno potrebbe pensare così ma questo, dal mio punto di vista, consisterebbe in un favoreggiamento da parte della giunta ad un certo tipo di attività a discapito di altre (che tralaltro spesso si differenziano dalle prime anche per l'etnia della gestione) ma questo sarebbe incredibilmente ingiusto e io non voglio credere che il nostro sindaco e il nostro consiglio possano anche solo pensare una cosa del genere  soprattutto , come già sottilineato, vista la particolare situazione della nostra cittadina. Tento di dare una mia spiegazione allora, ben sapendo che si basa su mie considerazioni personali che sicuramente mancano della preparazione adeguata per essere espresse.
In Italia le questioni riguardanti l'ordine pubblico o la salute dei cittadini hanno sempre un notevole impatto sull'opinione pubblica (chiedo scusa per la ripetizione) e di conseguenza sono di notevole interesse per le giunte comunali. Da sempre però l'applicazione compulsiva di questo tipo di direttive, con un numero sempre maggiore di zeri nelle sanzioni e con minacce sempre più severe per i contravventori, si risolve con un nulla di fatto se non con la percezione della necessità di una direttiva ancora più "forte" per risolvere il problema. Il circolo vizioso è evidente. Il risultati anche. L'abuso di alcool cresce a vista d'occhio e a farne uso sono ragazzi sempre più giovani, e la stesso vale per le droghe. Chi vuole, nonostante i risultati a cui hanno portato, continuare ad insistere su una politica repressiva e proibizionista ha per conto mio altre ragioni per la testa rispetto alla salute e al benessere della gente. La politica sembra essere in una costante crisi narcisistica che le impone di ottenere risultati quantificabili in posizioni scalate in squallide classifiche tra comuni e percentuali nei sondaggi. La salute e il benessere della gente non centrano nulla. Vogliono il centro pulito e che nessuno che dia fastidio a chi potrebbe poi fare una segnalazione in municipio. Nessuno ha il coraggio di affrontare il problema principale. Nessuno si chiede per quale motivo la gente senta la necessità di bere o di farsi, per quale motivo lo facciano i ragazzi. Continuare a fare multe e a mandare in galera la gente non risolve il vero problema. Una giunta coerente dovrebbe voler sapere e voler fare di tutto per facilitare il benessere della comunità, renderle il controllo per autocontrollarsi, darle la possibilità per curarsi da sè se c'è un problema. L'uso del conflitto con il problema da parte di coloro che dovrebbero risolverlo non porta a nient'altro che alla diffidenza, alla mancanza di fiducia e alla perdita di credibilità. L'uso e l'abuso di alcool e di sostanze di qualsiasi tipo sono la manifestazione di una debolezza delle persone interessate ma anche della comunità intera se questa non fa nulla per eliminare il problema. Questo dev'essere chiaro. E' troppo facile lamentarsi dal divano di casa propria, l'eco delle lagne della Monfalcone bene. Che si tratti di ingenuità o di inganno, il problema è grave e la responsabilità è di tutti. E' necessaria una presa di coscienza comune che ribalti l'idea del cittadino attivo solo in periodo elettorale, e allo stesso tempo è necessario da parte dei politici un'assunzione di responsabilità nei confronti del benessere dei cittadini piuttosto che nei confronti delle prossime elezioni. Inutile quindi tentare ancora una volta di gettare fumo in faccia alla popolazione cercando, parafrasando una bellissima canzone di Lucio Battisti, di arginare il mare con uno scoglio.


13 settembre 2009, Medana, Slovenia.

sabato 23 giugno 2012

Regolo


William Turner, Regolo 1828 (rimaneggiato nel 1837).
La leggenda narra che Attilio Regolo, prigioniero dei cartaginesi, venne giustiziato dopo che egli era stato mandato in patria a dissuadere Roma dall'attaccare Cartagine. Al contrario egli avrebbe esortato i suoi concittadini alla guerra, accettando così la morte avvenuta dopo varie torture. Tra queste, la recisione delle palpebre, che il pittore mette in scena dal punto di vista della vittima. Unica protagonista della composizione è la luce, la rappresentazione della quale interessava moltissimo all'artista. Essa avanza prepotentemente e invade, quasi divorandosi ogni cosa. Un quadro di strepitosa suggestione. 

giovedì 21 giugno 2012

Suprematismo


Kazmir Malevic, Quadrato nero su sfondo bianco 1913.
"La verità del pittore, è l'inscindibile connessione e la fusione. Il suo vero realismo non consiste nelle luce, nell'aria, nell'acqua, nelle e pietre, nel cemento, nel rame, nel ferro. La massa vede tutti questi fenomeni particolari nel quadro: vede aria, pietra, acqua. Ma, in realtà, sulla tela non c'è che un solo materiale: il colore." K. Malevic.

Non ho mai avuto nessuna simpatia per l'arte astratta ma, questo dipinto di Malevic e l'annessa affermazione furono per me come un fulmine a ciel sereno. Continuo ancora oggi a non prediligere questo tipo di figurazione ma credo che egli abbia ragione. Terribilmente ragione.  

mercoledì 20 giugno 2012

La chiave d'accesso: CAPITOLO 6 e 7 "La vita" e "Conclusione"


Sabato 11 Febbraio : La vita

Arrivai a quel venerdì completamente denaturalizzato. Il cammino di quei giorni attraverso la mente accidentata di quel ragazzo mi aveva permesso di ripoggiare i piedi sulla strada che attraversava la mia. Quella mattina le nuvole coprivano il cielo. La sveglia forse aveva suonato, forse no. Non l'avevo sentita o comunque non le avevo dato ascolto. Mi alzai senza guardare l'orologio e, camminando verso la cucina con l'obiettivo scontato del solito caffè, mi accorsi che i miei movimenti erano rallentati. La velocità e la frenesia sono un cattivo sintomo, come le ripetizioni. Ci ho fatto caso più volte da quel momento: le persone che abitano in sè, che sono sicure di sè, si muovono più lentamente delle altre. Penso che questo accada perchè non hanno più paura del tempo. Se si smette di camminare sul sentiero della vita insegnuendo una proiezione di noi stessi, irrangiungibile e girata di spalle, il tempo non è più un problema. La prospettiva longitudinale del vedere noi stessi proiettati in avanti ci distrae. Ci deruba del nostro presente, del nostro tempo. Bisognerebbe preoccuparsi di allargare la vita piuttosto che allungarla. Ora capisco chi lo sosteneva. Guardarsi attorno ci pone di fronte all'essenza del rischio. L'essenza del rischio che per l'uomo altro non è che un esigenza. La ripetizione ci mette al sicuro, i comportamenti circolari, compulsivi sono una facile via d'uscita ma il cambiamento è l'unica via per la felicità. Il salto nel vuoto. La nostra volontà è fuori dal nostro controllo, questo ormai mi è chiaro. E' qualcosa che ci supera, viene da quelcun'altro che abita dentro noi stessi. Il brivido della novità, dell'assenza di sicurezza, è capace di far battere i nostri cuori arrugginiti, di farci riassaporarte la libertà del nostro poter sceglierci. Le possibilità sono infinte. Le regole possono essere infrante senza che nessuno ci lasci le penne, anzi. La paura per molte persone, ed è stato così anche per me, è l'unico sentimento possibile. Anche l'amore era diventato paura ad un certo punto. Ma se la vita è solo paura allora come si può biasimare chi tenta di distruggerla, chi coscientamente corre a tutta velocità sulla strada dell'autodistruzione. Alla luce del sole, prendersi a sberle sorridendo. Alcuni hanno persino elaborato focose teorie che sostengono che sia giusto così, che sia inevitabile, che si vive una volta sola, che vent'anni si hanno una volta sola nella vita. Una volta sola. In tre parole , ora lo capisco, ammettere di essere schiavi della morte. Vivere essendo già morti, pensando solo alla morte e tentando, inutilmente, di sfuggirvi. Paradossale come chi non creda nella morte, chi si ostina a non crederci, alla fine si suicida lentamente estendendo la sua fine a tutta l'esistenza. La televisione, e chi c'è dietro di lei, ci ha promesso un futuro splendente, esagerato, senza limiti. Un paradiso sulla terra, un godimento eterno e infinito. L'ha chiamato felicità e ci ha fottuto tutti. Tutto ciò è irrangiungibile per la stessa natura dell'uomo. É una falsa promessa e ci ha reso tutti schiavi. La rincorsa verso un qualcosa di meglio, di quel qualcosa che forse arriverà domani, è una falsa speranza. É un inganno. É il miglior modo per tenerci in trappola, legati al circolo vizioso del capitalismo, dell'amore per l'oggetto. Tutto questo ci sta distraendo dalla verità, dalla bellezza del mondo, dall'incantevole sorriso di una donna, gli occhi di un bambino, la potenza di una cascata, il suono enorme di un tuono, la forza di un albero e la delicatezza di un filo d'erba, dalle parole di conforto, dagl'amici veri, dai fratelli, dalle madri e dai padri. Molto spesso tutto quello che ci serve è già attorno a noi, il resto bisogna andare a scoprirselo. Andare più in là, guardare oltre, toccare con mano liberandosi da quelle che sono, praticamente tutte, paure infondate.Constatare certe cose ti fa capire di essere cambiato, ti fa capire che ti stai guardando da un'altra prospettiva.

Mi colpì il fatto che non mi sentivo poi troppo diverso. Feci qualche passo per guardarmi allo specchio, vi trovai la solita faccia. Mi accorsi che ci stavo davanti ma non guardavo la mia immagine riflessa, guardavo la finestra, anch'essa riflessa, dietro le mie spalle. La mia figura non m'interessava poi molto, il resto sì. Il resto era un mistero.
Sospeso in quello stato di estasi terrena decisi di fare una passeggiata nel parco. Arrivato nel solito piazzale lo trovai deserto. La panchina nella sua triste solitudine sembrava godersi l'ombra dei cipressi, incurante della mia gioia. Il vento sovviava leggero e il vapore del mio respiro fuggiva veloce abbracciandolo. I rami verticali si accarezzavano tra loro facendo miagolare i colombi commossi. Il cemento dei vialetti tratteneva per sè un po' di calore per darlo ai gatti che, stanchi, si rotolavano sul suo addome. Quando le nuvole si addensarono decisi di prendere la pioggia, e di portarla via. Da sotto due improbabili ombrelli due ragazzini delle medie ridevano convinti, ondeggiando i loro ditini verso me che, fradicio, sorridevo alla vita.

Domenica 12 Febbraio : Conclusione

Mi alzai rilassato, voglioso di uscire. Decisi di fare un ultimo tentativo al parco. Speravo di poter salutare quel ragazzo che tanto era significato per me. Mi gettai addosso qualche indumento a caso e scesi in strada. Arrivato nel piazzale non trovai nessuno. Cominciavo a pensare che forse quell'eccentrico ragazzo non era nient'altro che una proiezione della mia mente quando mi sentii toccare sulla spalla destra. Mi girai e lo vidi, di fronte a me, sorridente e calmo. Mi disse:

"Spero di esserti stato d'aiuto, amico."

Feci per rispondere ma sentii un miliardo di parole che, contemporaneamente, lottavano per aggiudicarsi il posto in pole position del mio discorso, vinse un "sì" seguito a ruota da un "grazie".

Mi sorrise ancora una volta come per ringraziarmi a sua volta. Lessi nel suo sguardo un accento di libertà che aveva il colore del nuovo. Raccolsi la mie emozione da terra e cercai tra queste il coraggio di aggiungere un'ultima domanda :

"Che farai adesso?"

"Mi riposerò un po', oggi è domenica."

Eternal sunshine of the spotless mind



 Michel Gondry, 2004. Sceneggiatura di Charlie Kaufman con Jim carrey e Kate Winslet.
Il film, il cui titolo è stato impietosamente rovinato dalla traduzione italiana (Se mi lasci ti cancello), tratta, attraverso il superbo stile cinematografico dell'inconscio di Gondry e Kaufman, il tema del ricordo.  Joel e Clementine tentano, con l'ausilio di una bizzarra tecnologia, di dimenticarsi l'un l'altra, decisione che porta alla totale confusione nella loro mente e nel film stesso. Un ricordo doloroso in quanto tale deve essere eliminato? Chi e cosa siamo se non il risultato delle nostre esperienze e dei nostri ricordi? Jim Carrey in versione drammatica dimostra di essere un grande attore e Kate Winslet è formidabile, come sempre. 
Un film che lascia un sacco di domande aperte e che consegna in mano allo spettatore il compito di rispondere.


martedì 19 giugno 2012

La chiave d'accesso: CAPITOLO 5 "L'amore"


Venerdì 10 febbraio : L'amore

C'è in ogni uomo una tendenza a voler superare i propri limiti, a voler esagerare. Altrimenti è difficile spiegarsi come l'essere umano cerchi, costantemente, di andare nella direzione sbagliata. Una volta trovato un equilibrio decente, lo supera e lo stravolge. Di nuovo e per sempre. Questa tendenza che qualcuno ha chiamato Thanatos, istinto di morte, e che altri chiamano estro o determinazione, è ciò che ci rende umani. E' propobabilmente ciò che ci ha permesso di evolverci in maniera così strana rispetto ai nostri fratelli animali. In contrasto con questo esiste una forza benevola, indiscutubile, che ci strattona su quella che, impropriamente, chiamiamo "retta via". Tutti ci siamo resi conto, almeno una volta nella vita, che esiste, o che deve esistere, un fattore positivo soprannaturale che guida un uomo nel fare le cose nel modo giusto. E' ciò che fa la differenza. E' l'amore. L'amore nel senso più ampio e più preciso allo stesso tempo, l'amore nel senso di gesto d'amore, segno d'amore. Si può facilmente ricondurre, a mio avviso, ogni violenza o tragedia della storia dell'uomo ad una mancanza, ad un'assenza, di questo segno. Comportamenti violenti, di tipo psicologico o fisico, sono sempre conseguenza di un dolore oltre che causa. La violenza non può che nascere da altra violenza, e questa non è altro che una mancanza d'amore. Figli violenti sono conseguenza di genitori distratti, incapaci, non pronti, non amanti. E questi, a loro volta, sono tali in quanto figli di genitori altrettanto inadeguati. Figlio dopo figlio il mondo si è riempito di genitori e di eredi inadeguati che hanno creato tra loro relazioni, un'altra volta, inadeguate. Queste relazioni hanno portato alla formazione di comunità attraverso legami complessi conseguenza di quella che è quindi un' esponenziale assenza d'affetto. Il peccato originale, direbbe qualcuno. La colonna portante dell'umanità, crepata e traballante. Il lato più affascinante di tutto ciò è che l'amore non è una prerogativa del passato, non è un anziano signore in punto di morte, non è legato al tempo remoto ma al presente. La sua capacità è quella di rigenerarsi continuamente se maneggiato a dovere. Non morirà mai finchè non morirà l'ultimo uomo. Finchè ci sarà qualcuno che, stucco alla mano, ristrutturerà quella traballante colonna portante, ci sarà speranza e in qualche modo ci sarà bene, ci sarà vita. La sua forza sta, come per alcune arti marziali, nell'avversario. Un uomo che sa cosa vuol dire l'amore non risponde alla violenza con altra violenza, l'assorbe,l'asseconda e risponde con un sorriso. In questo modo da una disputa la forza negativa, il male, scompare, assorbito, lasciando spazio all'amore che può persino espandersi in un contagio plastico.
Mi era sembrato questo l'insegnamento più importante di quel mio seminario improvvisato tenuto da un folle dai lineamenti incerti, anche se d'amore non s'era mai parlato. Percepivo quel ragazzo nel parco come il mio riflesso in uno specchio che non c'era, l'ombra di una verità irraggiungibile.
Alle 7 di mattina ero già in piedi, vestito e lavato, pronto per la lezione. Una volta sentii uno psicanalista dire che la felicità si può comprendere quando ci si alza la mattina chiedendo "ancora". Ancora un po' di tutto questo, per favore. "Ancora", sussurrai. "Ancora di più", pensai. L'ambizione è nemica del successo solo quando il successo lo decreta qualcuno che abita al di fuori di noi stessi. Altrimenti è la sua migliore amica e può non avere limiti. Può avanzare in un rapporto asintotico con la felicità, soddisfacente in quanto concreto e allo stesso tempo slegato dal mito del "dover arrivare". D'altronde non è forse vero che un viaggio diventa memorabile solo quando è stato memorabile il tragitto, il cammino?

Così pensavo trotterellando verso il parco. Guardando il cielo azzurro e facendo passare antipasti di aria fredda su per le narici congelate. Il mio giovane amico, quella mattina, non era da solo. I suoi occhi non erano persi nel mondo come le altre mattine, erano paralizzati in un obiettivo. Un obiettivo di carne vive. La biologia dell'interazione tra sguardi formava una dimensione distaccata alla quale gli altri mortali non potevano accedere. Erano due oggetti fusi in un unico terzo, che osservava la realtà. Si accarezzavano, anche. Si sfioravano in un gioco di fusa senza compromessi e recite. Veri innamorati.
Sulla panchina accanto a lui se ne stava accovacciato infatti un fantastico esemplare canino. Appartenente a nessuna razza, ne religione. Un cane. Il pelo biondo sfilacciato dal tempo e dall'esperienza. Le croste di fango sui ciuffi più lunghi, gli occhi grigi di un anziano signore. Era una femmina, mi accorsi. Teneva la testa appoggiata sulle gambe del mio maestro schiacciandovi delicatamente la gola calda e leggermente sbavata. Gli occhi socchiusi parlavano di un sogno di complicità infinita.
Mi avvicinai per parlare, chiesi:

"Non ti avevo mai visto in compagnia, chi è questa bella creatura?"

Si girarono entrambi come in un tuffo sincronizzato. Si scambiarono uno sguardo sorridente, poi lui parlò:

"Lei è Libera. Mia compagna di vita da molti anni ormai. E' la mia parte mancante, la mia complice instancabile. Puoi accarezzarla, se ti va, ne sarà felice."

Avvicinai timidamente la mano come per paura di essere morso. Sentii i suoi baffi di plastica strofinarsi leggermente sulla pelle. Accompagnò il mio gesto muovendo la testa come in un guaito silenzioso. Fece uno sbadiglio di conferma.

"Non l'avevo mai vista – dissi – da queste parti, dov'è stata tutta la settimana?"

Mi guardò curioso.

"Non lo so dov'era – rispose – non la vedevo da più di un mese, in realtà. Non lo so dove fosse e non m'interessa, nei suoi occhi vedo la felicità e questo mi basta, basta! - esplose quasi silenziosamente in un raptus- si chiama Libera, perchè è libera. Ci vuole tanto? Alla fine torna sempre qui quo qua ma può succedere che sia io a partire per andarla a trovare, perchè ho bisogno di lei. Oppure lei torna, perchè ha bisogno di me. Ma non so dove vada, dada. Non ci rincontriamo perchè dobbiamo ma perchè altrimenti non ce la facciamo a ritrovare noi stessi. Nessuno obbligo, di nessun tipo capisci? E' tutto vero"

Pensai per un attimo di aver sopravvalutato la sua sanità mentale. Mi stava parlando di un fidanzamento con un cane, tutto sommato. Confuso decisi di chiedere, avendo ormai imparato che solo chiedendo potevo risolvere i miei dubbi:

"Scusa..mi stai dicendo che tu e questa bellissima cagna siete fidanzati?"

Sorrise guardando la sua consorte. Lei rispose con un leggero bofonchiare come a dire "che palle".

"Ti posso dire di sì che siamo fidanzati così penserai che sono pazzo, ti posso dire che lei è la mia migliore amica così penserai che questa è semplicemente una bella scena. Non lo so cosa siamo e posso dire con sicurezza che non ce ne frega un cazzo. Siamo, a differenza di molti, e basta. Non ci sono compromessi, io sono uomo, lei un cane. Nessuno tenta di convincere l'altro che il suo è il modo di vivere migliore. Ci rispettiamo e abbiamo imparato a farlo conoscendoci. Ho provato a cagare come lei una volta ma lei mi ha guardato strano, mi ha detto che cazzo fai caga come ti viene meglio. E così faccio, e stiamo bene. Poi chiamaci fidanzati, amici o rastrelli a me questo non interessa, e a lei nemmeno. Te lo posso assicurare. Vero Libera?"

L'animale rispose di sì. E si alzò per andare da qualche parte, forse proprio a cagare. Lui la guardò ancheggiare stanca e sorrise. Disse "Fa sempre così". Poi si rivolse a me e mi chiese:

"Tu hai mai provato l'amore?"

Rimasi qualche minuto a pensare. Le sue domande non esigevano una risposta, non creavano aspettativa, quindi mi presi il tempo che serviva per fare un giro nei miei ricordi. Sentii una morsa arrugginita aggrapparsi allo stomaco, dissi:

"Molto tempo fa..."

"Dovresti riprovare – incalzò lui – altrimenti che ci stai a fare qui?"

Mi alzai e me ne andai senza salutare. Non che qualcuno avesse richiesto il mio saluto, d'altronde. Con la triestezza nell'anima e negl'occhi decisi di passeggiare un po'. Quand'è che avevo rinunciato all'amore? Non me lo ricordavo e da un certo punto di vista mi sembrava di non averlo mai fatto. Mi sembrò che per anni avessi semplicemente amato per conto di altri. Altri avevano amato me, e io con loro avevo semplicemente amato il loro amare me. Sentii come la sensazione di ritornare nel mio corpo. Pensai ad altro mentre tentavo di restare sull'argomento. Infine decisi di non forzarmi e guardai i fiori. Poco più in là passava una ragazza troppo giovane per me, aveva un giubbotto verde militare e le idee confuse. Le sorrisi.
Lei fece finta di rispondere al telefono. Sorrisi di nuovo, questa volta per me.

lunedì 18 giugno 2012

La chiave d'accesso: CAPITOLO 4 "La politica"


Giovedì 9 febbraio : La politica


La vita è come un autobus:
per quanti stronzi ci possano essere dentro,
uno può sempre guardare fuori dal finestrino.


Ero arrivato a questa conclusione una domenica mattina della primavera precedente. Avevo sentito l'ennesimo padre di famiglia, accompagnato da elegantissima signora e dessert di figli laureandi di quelli di tipo "fiore all'occhiello", che, vestito in maniera troppo giovanile, si lamentava dell'assenza della popolazione autoctona nella grande piazza invasa dal sole. "Ormai ci sono solo indiani, rumeni e napoletani", sbuffava. Ne parlava come se gli abitanti del posto, quelli veri, fossero stati rapiti e venissero tenuti legati con la fronte premuta sul vetro delle finestre che si affacciavano sulla piazza. Costretti a subire lo spettacolo disgustoso della diversità. Cosa stai dicendo, amico? La cosa mi sembrava ancora più assurda in quel contesto rurale, in cui la varietà tonale e la serenità familiare completavano un quadretto che io , personalmente, trovavo dolcissimo. "C'è da avere paura", diceva. Scambiava sguardi d'intesa con altri membri del suo ingroup, come se fosse in balia degli eventi. "Stiamo perdendo la nostra identità". Si lamentava. Non ho mai capito a quale identità fanno riferimento queste persone. Mi era difficile pensare allo stereotipo, sicuramente esagerato, dell'uomo del posto: grandissimo bestemmiatore, decisamente poco acculturato, il cui valore è dettato, di fronte ai suoi simili, dal numero di volte in cui al mese si è vomitato addosso per le sbronze. "Cazzo – pensai – speriamo proprio che qualcuno li fermi questi negriterroni!" Che peccato sarebbe, per tutti noi, perdere la nostra identità. Di certo, questi rispettabilissimi signori, non pensano mai alla tragedia che la scomparsa degl'immigrati causerebbe alle loro discussioni e alle loro feste, cosiddette, tradizionali. Non avrebbero più niente da dirsi, c'è da scommettersi. Non sarebbe più facile accettare la diversità e farne uno strumento? La cosidetta identità non è forse frutto degli eventi? Non deriva forse dalle esperienze di questa gente? E non sono anche queste esperienze? Per quale motivo dovremmo, così piccoli e nudi, tentare, tenendoci per mano, di arginare il fiume della storia? Per salvare che cosa? Finiremmo coll'annegare abbracciati, orgogliosi della nostra similarità. E questo, purtroppo, succede ogni giorno.
Per fortuna una soluzione a questo indomabile fastidio esiste: guardare fuori. Rendersi conto dell'indicibile grandezza dello spettacolo che ogni giorno ci viene offerto da chi di dovere. Chiamiamolo Dio. O Balù, non che faccia differenza. La bellezza del mondo, così grande rispetto allo schifo dell'uomo, che quasi quasi se ne fotte.

Giovedì 9 febbraio mi ero svegliato incazzato. Avevo sognato l'amore ed ero rimasto deluso, una volta aperti gli occhi. Che ingiustizia, i sogni. Preti pettegoli a cui è impossibile mentire. Non mi sentivo assolutamente in colpa per aver driblato il seminario. "Che si fottano", pensavo ingenuo. Come se non avessi bisogno anche di quegl'insegnamenti, per quanto inutili. Decisi comunque di andarci, mi serviva una giustificazione. "Sono stato male", perfetto. "Finalmente sono stato bene", avrei dovuto dire.

Arrivando nel piazzale centrale del parco, vidi il giovane sorridente. Se ne stava in piedi a camminare in tondo, in un circolo vizioso senza fine. Parlava tra sè e sè:

"Ad Ostia si ostinano ad ostinarsi, sbattere la testa contro il muro. L'essenza nel fermo mento o nel cambiamento? Prego il divenire gli chiedo di venire. L'adattarsi sempre sempre sempre ma nessuno vuole non avere ragione, avere il torto. Arriva un tordo, loro lo sanno. Il soldo ha assoldato misero l'esercito esercita il demonio. Esercizi, per il demonio. Ne abbiamo bisogno? La soldisfazione piuttosto. Anche attraverso strumenti fermi nel tempo, elaborare il divenire. Fermi cambiamenti nei tempi. E hai risoltoi tuoi problemi, i nostri problemi, i problemi di tutti."

Mi avvicinai per farmi vedere, mi vide. Salutai, non rispose. Decisi di rispondere a tono :

"Capisco quello che intendi. Sistemi politici si ostinano a presentarsi fermi di fronte a una società che, inevitabilmente, è in movimento. In totale e costante cambiamento. Come può un insieme di regole ferme essere applicata ad un'entità viva che, continuamente, si divincola mossa dal solletico del progresso? Hai ragione. Ora capisco perchè sembrano sempre così vecchi, erano già vecchi quando sono nati. Quando sono stati nuovi, questi sistemi, per un po' hanno funzionato. Tutti, all'inizio, hanno funzionato. E poi rovina. Il cambiamento dunque.Ma come attraversarlo? Come vivere il passaggio? Come addomesticare il divenire al nostro servizio?"

Mi sembrava per la prima volta di parlare al suo livello. Non capivo bene come ma avevo interpretato il suo pensiero nonostante la sua incoerenza grammatica e di concetti. Ci stavamo intendendo, ne ero sicuro. La cosa mi faceva sentire ancora più vivo. Attesi per qualche secondo una risposta che, puntuale, arrivò.

" Hai proprio passato il passo del Gransasso amico. Come fidanzare la stasi e il movimento mi chiedi. Non dovresti chiederlo a me mi viene da venire, da dire. Terzo me, la scienza abbraccia questo dilemma e ne fa notti insonni. La ricercazione! Loro lo sanno. Le uniche regole ferme che ci servono sono quelle per le cose non ferme. Per il movimento. Regole ferme e mutabili allo stesso tempo, capaci di autodeterminarsi nel tempo. Loro lo sanno credimi. Sono norme come orme, sui passi del progresso. Una serie di storie che permettono di rendersi conto dei cambiamenti, di interpretarli e di adattarsi."

Non ci avevo mai pensato. Tutti si ostinano a riproporre sistemi che sono già stati usati e che hanno già fallito. Nessuno si rende conto del cambiamento. Nessuno è disposto a cedere un po' del proprio potere per il mutamento, unico motore della società che, costantemente, si muove. A ciclio continuo appaiono sullo schermo sempre gli stessi volti. Non che questi abbiano sbagliato in passato, non che siano stati bravi. Non divremmo dire "bravi", perchè tutti siamo conseguenza di quello che abbiamo vissuto, non dovremmo parlare di "cattive intenzioni" perchè ogni intenzione non è cattiva per chi la mette in atto. Dovremmo imparare a distinguere chi ha le qualità per governare e, nel senso più buono del termine , servirsene. Servirsene finchè è in grado di farlo e poi salutarsi. Senza rancore, amici come prima. Bisognerebbe formulare una volta per tutte una serie di criteri universali di cambiamento. Valori oggettivi che determinano la fine delle epoche e che ne dettano l'evoluzione verso il benessere di tutti gli uomini. Risposi con poche semplici parole ma che volevano dire tutto:

"Esatto, ci siamo capiti."

Non avevo potuto fare a meno di notare, mentre lo ascoltavo, che quello che lunedì mi era sembrato un blaterare senza senso giorno dopo giorno prendeva sempre più la forma di un discorso coerente, compiuto e grammaticalmente corretto. Questa evidenza appariva ancora più stravagante se considerata dal punto di vista delle mie emozioni. Mi sembrava che non fosse lui a diventare più chiaro ma che fossi io che, giorno dopo giorno, imparavo a decifrarlo. Decisi di salutarlo recitando a memoria un passo di Fernando Savater:


"D'altronde - dissi - non è la politica che provoca i conflitti: buoni o cattivi, vivificanti o mortali, i confilitti sono sintomi che fanno necessariamente parte della vita in società..e paradossalmente confermano quanto siamo disperatamente sociali."

Mi guardò complice. Che bella sensazione. Camminai verso il seminario quasi trionfante.

domenica 17 giugno 2012

La chiave d'accesso: CAPITOLO 3 "La giustizia"


Mercoledì 8 febbraio : La giustizia

Quando ci si ritrova nudi di fronte alle proprie responabilità quasi mai si riesce ad abbracciarle. L'amor proprio sotto forma di panico e fragilità ci suggerisce in silenzio di schivarle, di fuggirne via. E così facciamo, trovando, con straordinaria abilità e fantasia, soluzioni impossibili. E che talento abbiamo tutti in questo, millenni di evoluzione racchiusi in semplici gesti. Quel timore esistenziale, il "dolore di esistere" che costringe un numero incredibili di giovani a rinunciare al rischio dell'amore, che li porta ad amare oggetti inanimati che non possono intaccare la loro autostima, in quanto morti. Questi, colpevoli di silenzio, contagiano l'essenza del loro vivere, stuprandoli in focose notti di xbox e droghe leggere. L'impotenza acquisita, vero male del nuovo secolo, sarà forse il motivo dell'estinzione dell'uomo. La voglia di non vivere, alla fine ci ammazzerà e , tutto sommato, io non ci vedo nulla di strano. Se il capitalismo ci vuole oggetti, oggetti saremo, senz'anima finiremo imbevuti di trasgressione, un marchio registrato impresso a fuoco sul petto e, finalmente, senza limiti. Svegliatomi, evidentemente di buon'umore, pensavo a tutto ciò mentre schiacciavo il tasto "play" dello stereo, in riproduzione "Il Suicidio del Samurai", capolavoro infinto dei Verdena. Avanti così.
Regalandomi un bis di sorpresa e gratitudine, ricordai quasi subito la ventata di benessere che ero riuscito a sfiorare il giorno prima, estasi perfetta in acquarelli vegetali. Ne volevo ancora. Dio quanto ne volevo ancora. Nonostante il freddo uscii sul davanzale in mutande, il vento gelido mi accarezzava per darmi il buongiorno. "Buongiorno a te", sussurai. Avevo riconcquistato la capacità di concentrarmi sul presente, ero parte del mondo, di nuovo. Ne volevo ancora. Questa sensazione di vita, me ne rendevo conto, era per me intimamente e segretamente collegata agl'occhi di quel ragazzo nel parco. Quanto lontani e quanto vicini eravamo stati in quell'incrocio di sguardi. Quante novità silenziose nella mia vita, da quel momento. Era strano come, camminando verso il parco per la terza volta quella settimana, mi guardavo intorno cercando negl'occhi della gente che incrociavo un riflesso di me che mi aspettavo diverso. Pensavo che se avessi incontrato un amico, non mi avrebbe riconosciuto. Mi sentivo altro rispetto a prima, ma questo ormai l'avrete capito.

Quando arrivai nel centro del parco, dove quattro strade si incontravano in una specie di piazzale, trovai il mio maestro seduto composto sulla solita panchina. Sembrava più umano delle altre volte, aveva le labbra leggermente serrate e una goccia di saliva le univa riflettendo il verde degl'alberi. Portava un paio di jeans consumati con degli strappi all'altezza del cavallo e un maglione scuro da cui spuntava il collo di una polo bianca. Sembrava assente. Mi avvicinai e, decidendo di mostrarmi compassionevole, mi sedetti al suo fianco. Il timore di uno scatto improvviso mi parlava da lontano, come l'eco delle parole di un padre premuroso. Non fece nulla, come se non ci fossi. Decisi di prendere l'iniziativa, gli ero riconoscente e volevo assolutamente dirglielo:

"Sai, devo ringraziarti. Le tue parole di ieri mi hanno scosso. Non so se era tua intenzione farlo ma hai risvegliato in me qualcosa che dormiva da anni..."

Sorrise beffardo. Facendolo la goccia di saliva si allungò fino a sdoppiarsi in figlie che raggiunsero ognuna un labbro diverso. Teneva lo sguardo fisso in avanti, come fosse cieco. Mi sentivo un imbecille, forse avevo osato troppo o troppo poco, pregavo per un gesto risolutore. All'improvviso parlò:

"La primavera porterà una gazza una ragazza Giustina il nome..Giustezza - parlava sottovoce e dovetti avvicinarmi allungando il collo per sentire – ella si sdoppia in ogni momento e le sua parti partono per porti in un parto che le riavvicina sempre. Una ondeggia onda tra l'uguaglianza e la singolarità per poi tornare e tornare tornare l'altra è ferma ma di forma mutevole e muta matta di certo la legge si legge appunto a punta patente a punti la soluzione è nell' individualità del rapporto con gli altri mangiare le more..le more! Si muore si muore ma le more l'amore è così..tutti si muore tutti l'amore!"

Infine mi guardò come per chiedermi se fosse tutto chiaro. Feci un gesto come per dire "così così". L'accostamento del concetto di giustizia (mi era sembrato si parlasse di quello, e avevo ragione) a quello di amore mi aveva ricordato un filosofo francese, Jean-Luc Nancy, che in una conferenza a dei ragazzini delle medie, parlava dell'amore come termine ultimo e risolutore della questione della giustizia, o almeno di quella morale. Esso è l'unica cosa che , universalmente, è giusto riconoscere a tutti, in quanto se ne siamo privati inevitabilmente ci uccide. Sì ma che cos'è l'amore? L'amore è riconoscimento, viene detto, e io sono d'accordo nel pensare a questo come il diritto di ogni uomo di essere uomo, di poter godere di dignità, sempre e comunque. Questo atto d'amore dev'essere, da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo, infinito. Non esistono criteri di età, razza, orientamento sessuale, politico. Siamo tutti sulla stessa barca, e stiamo affondando, cantava qualcuno. Il diritto alla vita quindi, da un punto di vista giuridico, deve valere quanto il diritto alla morte, e su quello non è che si possa fare poi tanto i furbi. Non ci sono cazzi. Avevo pensato tutto questo spezzando le parole in un continuo accavallarsi di pensieri troppi veloci per essere detti. Mi accorsi di avere lo sguardo fisso nel vuoto, decisi di dire qualcosa, come per rompere un imbarazzo che non c'era.

"Nel senso che la giustizia dev'essere uguale sia per me, che per te, che per tutti?" Già dicendolo, mi ero sentito un idiota. Il ragazzo mi guardò e con aria quasi seccata disse:

"Perchè quale differenza c'è tra me e te?"

Colmo di vergogna mi scusai balbettando mentre lui si stava già concentrando su altro, mi sembrò che stesse seguendo una coraggiosa farfalla con lo sguardo. Ne approfittai per eclissarmi nell'ombra dei cipressi. Decisi di non presentarmi al seminario, mi sembrava inutile. Tornai a casa pensando di avere la febbre. Lanciai la tracolla e il peso dei libri le fece fare un gran tonfo sul pavimento di finto marmo. Avevo fretta. Dovevo ripendere in mano quel libro. Lo trovai dopo qualche minuto, sul fondo della libreria, colmo di polvere, graffiato da milioni di "tatuaggi e cicatrici" in forma d'appunti. Aprii a pagina 28, lessi:

"Questo riconoscimento dev'essere infinito; è un riconoscimento che non può avere limiti. Esso è dunque, in fondo, impossibile da realizzare interamente – impossibile da aggiustare. Possiamo dire, dunque, che essere giusto non è pretendere di sapere cosa è giusto; essere giusto è pensare che ci sia ancora più giusto da trovare o da comprendere; essere giusto è pensare che la giustizia è ancora da compiere, che essa può esigere ancora di più e andare ancora oltre."

Dunque, come spesso mi succede, avevo ricordato l'incipit ma mi ero perso la parte più interessante. Pazienza, per fortuna l'avevo ritrovata e adesso, di certo , non l'avrei più dimenticata. Ringraziai qualcuno di imprecisato guardandomi attorno, dissi "grazie". Ormai ci avevo fatto l'abitudine.

Mi gettai stanco sul letto, nonostante fosse ancora mattino e qualcuno, sicuramente, stava ancora facendo colazione. Altri, di sicuro, smaltivano sbornie e rifacevano l'amore per dimostrare che quella notte non era stata un errore. Me li immaginavo toccarsi cercando di non guardarsi. Accessi lo stereo, selezione random. Traccia numero 143, il cantante dei Wilco sussurrava:

"...Please be patient with me...".

sabato 16 giugno 2012

La chiave d'accesso: CAPITOLO 2 "La natura"


Martedì 7 febbraio: La Natura

Mi svegliai in un bagno di sudore e lucidità. I soliti cinque minuti in cui giornalmente il preconscio ricostruisce le mura della società, mi erano sembrati anni. Il seminario era stato, come da pronostico, una rottura di palle. Una scialuppa di professoroni avevano remato orizzontali in direzione contraria dei seminaristi, dall'alto delle loro incomprensibili definizioni frutto di anni di ricerca, si stagliavano inarrivabili sullo sfondo del power point. Attorno a me sedevano altre due o tre dozzine di meritevoli e altri due o tre quintali di meriti scolastici impacchettati in valutazioni semplici e senza cuore. Dire un valore per dare un valore. Non capivo. Parlare dell'altro stando seduti dall'altro lato dell'altro. Non capivo proprio. Mi ricordo che per tutta la durata della lezione avevo la voglia di alzarmi per andare a tirare giù quei vecchiacci da quel palchetto, tirare i loro vestiti eleganti fino a strapparli, far sentire loro il freddo del pavimento sulla pelle nuda e glabra di vecchiaia. Il pensiero di ritornarci oggi mi infastidiva. Decisi che, comunque, questa cosa andava fatta e avvolto di fierezza pensai al mio rispetto per le regole, all'importanza delle regole e all'evoluzione dell'uomo. Bevvi un caffè.

Quando scesi in strada mi ritornò forte in mente il ricordo del ragazzo nel parco. Provai la strana sensazione che si ha nel dare ad un ricordo allo stesso tempo poca e molta importanza, come se due persone all'interno della mia persona stessero litigando sul valore di quell'esperienza. Grande esperienza, ma quale esperienza. Nell'alternanza di interessi decisi comunque di passare nuovamente di là, come il giorno prima mi ero ripromesso.

Arrivato nel punto dove l'avevo intravisto, mentre mi distraevo cercando di camminare tenendo i piedi su un'ipotetica linea retta che mi conduceva, sentì un suono stranissimo. Difficile da spiegare. Era qualcosa che assomigliava ad un ponte che partiva da Madre Natura per arrivare all'uomo, l'anello mancante tra Dio e il Cristo in forma di canto, di grida dolci e strazianti. Mi ricordo che pensai che quello doveva essere il suono della voce che l'uomo avrebbe avuto se non si fosse inventato il linguaggio, il suono che un ipotetico superuomo avrebbe dovuto imitare nei suoi richiami per uomini, per ingannarci in trappole di caccia sportiva. Era il ragazzo del giorno prima, disteso su un prato, vestito nella semplicità di un lenzuolo bianco, un po' asceta o un po' vestito di carnevale, comunque fantasma. Faceva :

“aaaaaaaaaaaaaeeeeeeeeeooooooouuuuwww...wuuuuoooooooaaaaaaaaaaaa”

Dimentico degl'insegnamenti di Pirandello, decisi che non avevo tempo per certe stronzate. Feci per allontanarmi mentre pensavo, di nuovo, all'ingiustizia che quel poveretto subiva dalla stessa natura che sembrava cantare in quello strazio di corde vocali .All'improvviso però mi ricordai alcune parole che gli avevo sentito dire il giorno prima : “orecchiette in cima di rap”. Pensai e ripensai. Perchè quelle parole avevano lasciato una traccia, un ultimo colpo di picconte sull'orlo del mio oblio?Perchè? Mi fermai. In testa ripassavo, sorprendendomi allo stesso tempo dell'efficacia di quelle parole, la cantilenia del giorno prima, il susseguirsi di parole inutili e casuali che avevo prima sentito e poi richiesto in risposta alle mie domande. Mi sembrava di essere vicino alla soluzione di un enigma, l'insight, la ricomposizione degl'elementi del campo, la somma delle parti diversa dal tutto. Ebbi un flash : “orecchiette in cima di rap”, l'aveva detto due volte!Mentre blaterava e rispondendo ad una delle mie domande. Una regolarità, pensai. Se c'è una regolarità può essere che questa faccia parte di una rete di simboli, parole per altre parole, sostituzioni, sublimazioni, la traduzione in un'altra lingua. La sua. Mi voltai e vedendolo, sentii il cuore bussarmi sulla trachea. Mi guardava.Mi guardava e il suo sguardo era di speranza, come se in quel battito d'ali in cui le traiettorie dei nostri occhi si erano incontrate mi stesse dicendo che io avevo le chiavi per aprire la diga della sua conoscenza. Speranza, pura e semplice speranza. Per un secondo, forse meno. Si voltò e ritornò al suo blaterare disinteressato, noncurante della mia figura che, paralizzata nel centro del parco, faceva ombra sul suo cantare una musica senza musica. L'eco dell'uomo in gabbia. La gabbia dell'ignoranza, pensai. Non so perchè.
Decisi di andare ancora una volta ad ascoltarlo. Parlava con tono sognante, come se stesse recitando poesie all'amore della sua vita, diceva:

“siamo nati nella natura siamo noti e notti nitidi nidi di colori e colori con l'oro e l'argento getto occhi su piccole libertà libere nel loro gracchiare lo sconcerto di un concerto live vive nel vivido estasi in stati d'ammirazione in quel suono che viene da Dio domando e rimando al mandante quesiti questioni questi ioni in celle di atomi atomici verde, verde! Giallo?? giallo arancione rosso viola azzurro blu nero bianco tutto da tatto e resta come un tatoo....tu!!! cosa temo?? tempo di tampax assorbiamo o sorbiamo il flusso di violenza noi contro tutto!! tutto!!! sono tossico del sonno di queste tossine allegro mi godo allergia dell'universo in un unico verso - fece un gesto come per recitare – ho perso il controllo, e dopo tutto non avrò che pioggia, che cade con me"

Rimasi di stucco. Quelle ultime parole a compimento dell'ennesima follia toglievano ogni dubbio: nessuna connessione era saltata in un quell' ammasso di sostanza grigia e bianca, s'erano solo spostate su un altro piano cognitivo. La loro presenza, stabile e quadrata, era palpabile in quelle parole. La logica della realtà umana all'interno dell'universo che prende forma grazie alla sua più particolare peculiarità: un messaggio. Mi stava insegnando qualcosa, e lo faceva dalla mia stessa altezza, entrambi con i piedi su un'ipotetica panchina, lontanto da qualsiasi cazzo di palchetto e senza bisogni di slides per tenere il filo. Mi guardai attorno. Il colore del mondo mi sembrava più vivo, allucinazione sana di sensazioni amplificate .L'ossigeno unico elemento psicoattivo e il petto in fiamme. Il numero di percezioni che riuscivo ad elaborare mi stupiva. Sentivo scomparire le cosidette "questioni esistenziali" sulla scia di uno sfondo rivoluzionato, dono ultimo di qualche Dio onnipotente che volevo ringraziare. Lo feci. Dissi a bassa voce "Grazie" con il mento appoggiato sul petto in un gesto di vergogna che veniva dal terzo millennio. Ero uomo - animale, tessera di un mosaico più ampio di quanto mi fosse permesso immaginare, figlio di una madre benevola e giusta, coerente e spietata. Questa volta Pirandello mi tornò in mente senza bisogno di sfogliare la sua opera :


"nella sua santità, difatti, ella riteneva che quei fiori di campo non nascono per gli uomini, ma sono come il riso della terra che esprime gratitudine al sole per il calore ch'esso le dà."

"Incredibilmente calzante", pensai. Distratto lanciai lontano gli auricolari del mio lettore mp3 mentre riprendevo il passo. Feci il gesto, utile quanto l'alba a compimento di una notte d'amore, di mettere delle cuffiette inesistenti e scaricai dall'internet della vita la melodia della natura. Sorrisi.

Il poeta

La figura del poeta è, ahimè, troppo spesso associata a qualcosa di estremamente noiso, antiquato e perché no fuori moda. Ognuno di noi è stato costretto a passare attraverso il fin troppo citato "mezzo del cammin di nostra vita", l'arioso "Zefiro che il bel tempo rimena",  l'arcinoto "ermo colle" e via discorrendo; tanto da esser giunti ad associare questi versi con le interminabili ore di Lettere, passate a scarabocchiare sui banchi di scuola. Per poter ridare vita alla figura del compositore di versi e, per così dire, vitalità sociale è necessario innanzitutto recare alla mente una fatto: il poeta è, forse più di ogni altra figura, un essere umano, nel senso più autentico del termine. L'idea che, generalmente, ci si dipinge nella propria testa è quella di una persona cristallizzata in un libro, non più quindi una persona reale ma un mito, un idolo (dal greco: "simulacro"). A mio parere, non c'è cosa più errata di un tale inalzamento ideale. Egli è, infatti, un uomo che ha sentito, provato le passioni umane, anche le più infime, e saputo tradurle in parola; è colui che è stato in grado di esprimere (come tutti i grandi hanno fatto) il sentimento profondo dell'essere umani, lo smarrimento d'innanzi alla vastità e alla varietà della natura e della vita. Soltanto attraverso il recupero di questa dimensione del poeta, è possibile (ed estremamente più facile) comprendere la vera essenza del cantore lirico. 
In secondo luogo mi preme portare all'attenzione qualcosa che certamente ai più non è chiara, poiché se lo fosse, di certo non si arrogherebbero il vanto di essere poeti. Poeta si è, se non con grande studio, fatica e lavorìo. "Il poeta è un grande artiere,/ Che al mestiere/ Fece i muscoli d'acciaio" scrisse Giosue Carducci. A questo proposito alcuni importanti studi relativamente recenti hanno dimostrato come la continua correzione dei propri scritti da parte di poeti e scrittori abbia portato al risultato finale, che non sarebbe stato così elevato se fossero stati abbandonati alla loro prima stesura. Caratteristica comune a tutti coloro che sono stati grandi e fondamentale,  che non deve e non può essere assolutamente dimenticata. A fianco a ciò va ovviamente segnalato, come non a caso un giovane Leopardi fece notare("Scintilla celeste, e impulso soprumano vuolsi a fare un sommo poeta") che poeti si nasce, e sulla base di questa caratteristica innata va affinata l'arte del "cantare". 
Il poeta inoltre, il vero poeta, ha la necessità di vivere una vita appartata, lontana dal trambusto della vita quotidiana, dalle parole pronunciate a casaccio. Ludovico Ariosto dopo una vita di servizio alla corte estense si comprò una piccola casa con il proprio denaro all'entrata della quale fece scrivere "parva sed apta mihi" ("piccola ma adatta a me", di oraziana memoria) proprio con l'intento di sottolineare la necessità da parte del poeta di vivere una vita dimessa. Al di là comunque del luogo in cui egli vive, ogni grande lirico ha il bisogno di ritagliarsi un piccolo spazio del mondo, nel quale rifugiarsi per poter riflettere, assaporare la preziosità del silenzio che tanto ha da dire; e vagare con la mente verso interminati spazi. Godere delle sensazioni che la natura sola sa dare. Valgano come unico e perfetto esempio, e come conclusione i versi 158-166 de "La Ginestra o il fiore del deserto" di Giacomo Leopardi.

 Sovente in queste rive,
 Che, desolate, a bruno
 Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
 Seggo la notte; e su la mesta landa
 In purissimo azzurro
 Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
 Cui di lontan fa specchio
 Il mare, e tutto di scintille in giro
 Per lo vòto seren brillare il mondo.

Ts.


Cade una stella e lascia una scia luminosa. Chissà quante persone vorrebbero essere al posto mio in questo momento. Il cielo è colmo di luci, le barche e gli aerei nel mare e nel cielo. Il cielo è bello di notte, le stelle ammiccano con simpatia. Tutuntutuntutun il treno sfreccia sicuro in mezzo alla terra fredda, le luci sono dappertutto e fanno brillare gli occhi. Come a Natale e tutti sembrano più belli, poi c’è l’odore di mandorle e la fiera e il freddo. La città dall’alto traccia i suoi contorni e abbraccia il mare oscuro che si confonde con il cielo nero. Centinaia di lumi egoisti e solitari sono il calore della mia città che si confondono a loro volta con le piccole stelle. Incredibilmente lontane e pure nostre. Cade una seconda stella, comincio a pensare che dovrei credere a certe cose, alle superstizioni. Dove vai poi? Si a te, dove vai? Io me ne sto qui a guardare qualcosa che è accaduto anni luce fa e mi emoziono,  lo racconto e tu intanto lasci la scia. Come le barche a vela che escono timide dal porto, e il vento le spinge al largo veloci veloci. La sera, prima di cena, il porto è fresco e canta. Le macchine passano svelte e riflettono le loro luci nell’acqua, e i lampioni si specchiano  negli occhi della gente. Da sopra, le montagne maestose continuano a ricordarci la nostra insignificante piccolezza. A volte dagli scogli si vede la luna solinga, eterna peregrina, e la sua luce bianca dipinge di un dolce pallore i volti. Si, siamo tutti più belli anche sotto la Luna. Oppure quando scende la neve candida e morbida e le strade e le case si coprono di bianco. I rumori quotidiani vengono attutiti e smorzati e ognuno si sente nuovo, diverso. Come quando sboccia la primavera e Zefiro il bel tempo rimena, e il leggero calore che sfiora la pelle umida e le risa dei bimbi. L’odore di erba e di campi in periferia.
I vicoli stretti e sporchi chiudono a tenaglia le poche manciate di vite che li percorrono, accoglienti come l’abbraccio della mamma.  L’odore di pesce e di pane e il gatto arancione. La piazza grande e là, si là in fondo, oltre il mare le montagne bianche immense. Autoritarie e confortanti. Soffia il vento, quello forte, e porta con sé i pensieri, di ogni genere. L’oro e il freddo, il carso e il mare. Impossibile immaginare come facciano tutte quelle persone a vivere così poco distanti le une dalle altre, schiacciati in una coltre di edifici incastrati tra salite e discese. D’altronde è bello qui, confortante. Sapere di essere al margine di un qualcosa che forse non ci appartiene, a cui non apparteniamo. La solita vecchia storia dello spettatore in galleria. 

venerdì 15 giugno 2012

La chiave d'accesso: CAPITOLO 1 "Introduzione"



Lunedì 6 Febbraio: Introduzione
Appoggiavo per la prima volta il piede destro sull'ultimo scalino di cemento rozzo quando pensai : " indice d'assenza di fondi comunali e di gusto estetico". Cambiai pensiero. Facendo zapping tra la materia che mi circondava vedevo cipressi altissimi, orfani dei loro morti da non disturbare, tristi e abbandonati nelle noiose passeggiate di famiglie apparentemente felici e cani che avevano finalmente imparato ad essere uomini. Avevo deciso di fare quella strada perchè da qualche giorno, stanco del grigiume invernale, avevo riscoperto il gusto della camminata lenta, del passo d'uomo quasi sempre sconfitto nei sondaggi da qualsivoglia treni o autobus. Era lunedì, come avete potuto capire dalla didascalia iniziale, e mi trovavo di fronte a quella che si prospettava una delle settimane più figlie di puttana tra tutte le cinquantadue che compiono l'anno.
"In quanto studente più meritevole del tuo corso, avrai l'onore di seguire un seminario della durata di una settimana, da lunedì 6 febbraio a sabato 11 febbraio, sull'incomunicabilità tra gli individui, la conoscenza dell'altro nei termini della diversità. Il suddetto seminario sarà tenuto da , nientepopodimenochè, il dottor commendator ingegner professor Laalaalaa Lalaaa".
Così diceva la lettera che tenevo di fronte a me, mentre la rovinavo col sudore che mi colava dalle mani. Diceva così più o meno..immagino non ci fosse il "nientepopodimenoche" e quello non fosse il nome del tipo che coordinava la storia. La leggevo e la rileggevo da giorni e non potevo fare a meno di pensare che non capivo nemmeno una delle troppe poche parole scritte. Meritevole? In che senso? Corso? Si parla di corso di studi, corso d'azione o corso della storia? Essere il più meritevole del mio corso della storia mi lusigherebbe ma, con tutto il rispetto, non credo di meritare tanto. Poi per una cosa del genere ricevere in premio un seminario di una settimana? Suvvia, che cazzo. Così pensavo e continuavo a guardarmi intorno, immerso nell'ironia di un ambiente naturale di natura artficiale, che ricordava un bosco solo per la caratteristica benevolezza dei luoghi senza uomini. "Un parco è una pista da passeggio per uomini abbandonata", così pensavo. Mi ricordo che questo pensiero mi era piaciuto. Continuai a camminare quando, restando sospeso nella più laica delle epifanie, vidi una scena piuttosto particolare.
Un ragazzo, che avevo identificato come mio coetaneo, stava in piedi su una delle panchine vecchie e arrugginite case di mille e più tossicodipendenti innamorati e parlava tranquillo, apparentemente a nessuno.Solo due giovani stronzetti provenienza scuole medie lo guardavano da distanza di sicurezza e ne ridevano convinti. Parlava da solo ma era come se stesse insegnando al mondo. Gli occhi sbarrati tendevano a panorami di altri pianeti in altre epoche, lo sguardo inquietante e benevolo allo stesso tempo. Era vestito in smoking e aveva l'aria di chi se l'era messo addosso perchè pensava di incontrare la persona giusta quel giorno. Gesticolava lento a ritmo del vento tardo invernale e spostava il naso come a cercare indizi di primavera premunitori di una calda mattinata. Muoveva involontariamente l'orecchio sinistro e sembrava non credesse a quello che diceva. Incuriosito mi avvicinai, in stato estatico, tanto quanto bastava per sentirne il delirio, diceva :
"la chiave d'accesso è la chiave del cesso la chiave del cesso è la chiave d'accesso l'ascesso è asceso fino a fondere le funi in legami e legumi lagna la mia lasagna calda conduce cercando nuovo duce e luce e donando orecchiete e cime di rap mi si regali un regalo regale ascoltanto le raganelle nelle gonne delle ragazze e urla di terrore Oddio oddio c'è un mostro nei pressi della mia vagina e quella scappa come da tre kappa uno scarafaggio.. forbito? forbito! fan del fanculo da tempi andati zero sole nella solitudine abitudine nonchè l'incubo dell'incudine, poter potere nel dire diranno di voi giovani stronzi sogni di fregne andate, seminano seminari sui binari e sanno di semi più di sonori suoni di amore lontano..."
Così diceva quel pazzo, e non si fermava. Lo ascoltavo perso nel percorso che va dall'interessamento alla resa altruistica, passando per la compassione. Pensavo al dolore di non avere uno schema logico nei pensieri, all'essere talmente disordinati da non essere uomini, tanto da dover stare in piedi su una panchina quando sulle panchine ci si siede. Compativo soprattutto, e giudicavo con onestà e amore quel poveretto incastrato in un loop di pensieri senza senso, di assonanze sconclusionate. Mi chiedevo quale fosse la connessione che in quel cervello doveva essere saltata. Mi chiedevo quando doveva essere saltata. Mi chiedevo se era cosa intelligente o pericolosa provare a chiederglielo. Mi chiedevo tutto questo quando mi accorsi che già stavo chiedendo.
"Scusa? - riuscì ad interromperlo - mi chiedevo cosa vuol dire quello che stai dicendo"
Lui mi guardò alternando nello stesso sguardo la gioia di un padre e la diffidenza di un ladro. Rispose:
"Coraggio giovane, coraggio! smettere di guardare e cominciare a vendere, no a vedere. il verde guardo oltre l'otre del tre tramando di tramonti la verità è la vanità del non capire ma carpire come carpe mica capre qua solo capre capre fino a che si crepa sotto o sopra la panca? - sorrise maligno - sei passato oltre il passato un gran passo da soprassare il gransasso lezione di oggi? introduzione alla dizione del sì nel rispetto profondo del no..affondo affondo mi fondo nelle fronde del farfugliare a ritmo di farfisa..."
Così mi aveva risposto. Più limpido dell'acqua muovendo le mani come se non ci fosse collegamento tra gesto e parola, sembrava nuotasse. Pensai che doveva essere la stessa assenza di collegamento che gli faceva scegliere quelle parole piuttosto che altre, perchè infine, comunque, sceglieva quelle e ne tralasciava altre, no? Decisi di tentare un altro approccio:

“Potresti tradurre nella mia lingua quello che stai dicendo?”

Si fermò un secondo sorpreso dall'originalità della domanda. Continuava a guardarmi come se fossi un angelo e un diavolo allo stesso tempo, monumento d'indecisione e altare di sicurezza allo stesso tempo, sorrise, tornò con lo sguardo al cielo e disse :

“Tradurre...tradurre..come se la lingua fosse languida di languore da cuocere il cuore?”

“Ma certo..che domande...” Risposi senza sapere cosa stesse succedendo.

“Qualora la lingua si fa languida come alloro all'ora e allora? Che siano le tue orecchiette e cime di rap a far di tradizione tradita un percorso che dico discorso che cazzo...tutti a trattegiare il tatto tipo tatoo ma tu sei figlio di tata tatino trovi rovi dove muovi nuovi modi a modo mio dio io...”

E di nuovo non si fermava più. Non c'avevo capito nulla. Arreso all'evidenza della sua follia e compiaciuto dalla mia sanità mi voltai per andarmene. Pensavo che la cosa si potesse chiudere lì, pennellata di orignialità caduta dall'alto sull'affresco della mia storia, lasciando qualche goccia schizzata di colore qua e là. Invece no. Camminavo e sentivo la mia mano farsi strumento nel prendere il libro che mi accompagnava. Pagina a caso, lessi :

Se non che, convengo adesso che questo sarebbe un Dio difficile per la gente savia e anzi addirittura impraticabile, perchè, chi volesse riconoscerlo dovrebbe agire verso gli altri come agivo io una volta, cioè da matto: con equale coscienza di sè e degli altri, perchè sono coscienze come la nostra. Chi facesse veramente così e alle altre coscienze attribuisse l'identica realtà che alla propria, avrebbe per necessità l'idea 'duna realtà comune a tuti, d'una verità e anche di un'esistenza che ci sorpassa: Dio”

Mi fermai e decisi che Pirandello forse stava tentando di dirmi qualcosa. Decisi che l'indomani sarei passato di nuovo per quel parco, per andare al seminario.

Olympia




Manet Edouard, 1863.
Vista la sua indole di reporter di vita cittadina, Manet non potè non ritrarre una figura tipica del '800 parigino: la cortigiana. La giovane in questo dipinto assume una posa disinvolta e statuaria allo stesso tempo, con un pizzico di freddezza che non coinvolge lo spettatore della scena, lasciandoci quasi stupiti, imbarazzati. Lo sguardo è sicuro di sé e le gote leggermente arrossate le conferiscono una lieve dose di dolcezza; la posa della mano sinistra con cui si copre è di rara bellezza espressiva. Sulla destra una cameriera regge l'omaggio di un ammiratore, nella realizzazione del quale il pittore sfoggia le sue capacità artistiche.  Non è di certo la prima volta che una cortigiana viene ritratta da un artista, ma qui non è presentata sotto mentite spoglie o con qualche valore allegorico o simbolico. Essa si presenta per ciò che è, uno dei tanti aspetti della Parigi dell'800, e Manet ci pone di fronte a tutto il suo fascino. Il nastrino di velluto attorno al collo è certamente il tocco magistrale del pittore, che tanto ci dice di questa Olympia.   

giovedì 14 giugno 2012

Le désespéré





Di Courbet Gustave, 1844. 
Il padre del Realismo si ritrae, all'età di ventun anni, con uno sguardo che oscilla tra la sorpresa e, appunto, la disperazione. Egli fece decine e decine di autoritratti, per lo più realistici o volti a migliorare la propria figura, ma qui assume una posa, una mimica del tutto unica e indimenticabile. Gli occhi sbarrati, fatti risaltare dall'assenza dei capelli  sollevati dalla mano, suggeriscono più un intento teatrale che di vero orrore o disperazione. Un dipinto geniale.

Supermercato



La testa mi rimboma,
chiudo un attimo gli occhi
che mal di testa.
Parlano e si muovono
E urlano e gridano.
Le luci colorate sono così belle
Che paiono delle vere e proprie stelle.
Chiudo gli occhi
E i suoni giungono mescolati tra loro:
una coltre di suoni
barbari 
ruvidi.
Siamo tutti in fila alla cassa della rovina
Siamo tutti i commedianti della grande messinscena.


In principio era il Caos... Oggi?


Achille Pelide, triste
al bar dell'angolo dà inizio alle feste,
scandalo! si denuda e poi si riveste
e le donne sbirciano dalle finestre.
Piè veloce
che quando beve diviene feroce,
non più creduto per ciò che dice
come quando, al fianco di Aiace
mise a ferro e fuoco Ilo infelice.
In viso si fa è scuro e tetro,
riversa l'ira su bottiglie di vetro
finché non perde misura e metro,
fino a scoppiare una rissa sul retro.
Fermate, vi prego, Achille irato!
L'ultima volta non s'è fermato
prima d'aver distrutto l'isolato.
Unico superstite: il supermercato


Odisseo dal multiforme ingegno
vede da lontano il suo compagno
creare disordini senza ritegno
lo blocca, lo placa, si mette d'impegno
ma lo sguardo è perso e vuoto,
causa sicura, il fior di Loto
tratto in salvo dal maremoto.
Nemmeno Penelope, sposa fedele
è più a fianco del conduttor di vele
sottratto alla vita dalle Sirene
e ostaggio di oscure chimere.
Turbe di gente su mattatoi,
chi può salvar i nostri eroi?
città sorvolate da avvoltoi
chi vi aiuterà d'ora in poi?