giovedì 31 maggio 2012

Il Guardiano del Faro


È presto e le strade sono vuote come ogni domenica mattina, le foglie secche danzano sull’asfalto e il vento autunnale soffia fastidiosamente sui capelli scomposti di Lorenzo che, con sguardo assonnato e andatura goffa, inforca la sua bicicletta e si dirige lentamente verso la stazione dei treni. Sarà un addio stile vecchi tempi, la carrozza si allontanerà pian piano lungo i binari ed egli avrà il tempo di sporgere la testa dal finestrino arrugginito e guardare i suoi amici scivolare via, rimanere indietro. Loro sono già tutti li ad aspettarlo, chi fuma una sigaretta, chi beve un caffè, chi semplicemente si stropiccia gli occhi assonnati e stanchi dal sabato sera. Il vento trasporta il suono della bicicletta scalare affannosamente la salita che porta alla stazione, Lorenzo non è abituato a pedalare e sta lievemente sudando sulle tempie e sulla schiena. Una volta abbandonata la bicicletta si rolla una sigaretta senza filtro e compare alla vista degli amici, sorridono, il treno ormai sta per arrivare e come di consueto Lorenzo è tardi, anche per gli addii, quelli importanti. Nessuno sa arrabbiarsi con lui, grazie a quell’aria da bambino ingenuo e la barba a chiazze su un volto forse troppo giovane per la sua età. Il treno lo condurrà lontano a studiare una di quelle facoltà universitarie che sono state dimenticate dai tagli della riforma scolastica: un nome lungo e difficile da ricordare, un’ancora alla quale si aggrapperà per tentare di non finire alla deriva, come molti fanno attorno a lui. Viola ha lo sguardo basso e il viso imbronciato, tenta di scacciare il dolore mettendo il muso come fanno i bambini piccoli. Tiene stretta nella mano destra la sua macchina fotografica digitale, testimone di momenti indimenticabili e puntualmente pronta ad immortalare la bellezza delle persone e dei sentimenti che le legano. Ora si tocca svogliatamente la testa rasata ai lati e finge di sorridere in maniera disinteressata. I pantaloni da uomo le cadono dai fianchi troppo stretti ed è costretta a tirarli su ogni due passi che fa verso Lorenzo. Si abbracciano e sorridono, si mordono e si strattonano. L’attenzione dei presenti viene richiamata da una chitarra male accordata, animata da un ragazzo con i capelli lunghi e sporchi annodati a coda di cavallo, e con degli occhiali da sole seppure la stagione e il tempo non li rendano necessari. Vittorio è uno di quei ragazzi sempre allegri che mai e poi mai mostrerebbero in pubblico la loro debolezza, non per pudore ma per modo di essere. Tutti si girano e ascoltano le note trasportate dal vento mentre Alberto inizia ad intonare una melodia seguendo l’invito di Vittorio. Lorenzo sorride lievemente pensando a quelle innumerevoli volte, durante i viaggi o le uscite fuori porta, nelle quali la chitarra di Vittorio e la voce di Alberto hanno allietato le giornate accanto ad un bicchiere di vino, un po’ acido come le terre da cui viene prodotto. Alberto ha la testa rasata coperta da un cappellino, non riesce proprio a nascondere il suo stato d’animo e tenta di distrarre se stesso e gli altri cantando. Ha un grande talento espressivo, sembra nato a posta per calcare il palcoscenico. Non passa nemmeno il tempo per qualche lacrima di cadere che giunge affannosamente Boris con la sua andatura un po’ trasognata, le mani grandi e pelose, la sacca penzoloni. Il suo è un ritardo cronico e nessuno ormai ci fa più caso. Si avvicina a grandi passi sorridendo un poco e carezzandosi la barba folta che nasconde il viso di un bimbo troppo cresciuto. Estrae goffamente dalla sacca un disegno fatto appositamente per l’occasione e visibilmente terminato all’ultimo istante. Esso ricalca una foto scattata da Viola qualche tempo prima raffigurante Lorenzo assieme ad Augusto, il suo amico fidato d’infanzia dal quale non si è mai seriamente distaccato fino ad oggi. Le loro strade si dividono, Augusto prenderà un aereo verso il continente in cerca di fortuna, Lorenzo guarda per qualche istante il foglio e questa volta non riesce a trattenere le lacrime che cadono dolcemente sul suo viso incavato. Le strade di tutti si dividono: Alberto partirà per la Spagna assieme a Vittorio Viola e Boris, sarà una di quelle partenze indimenticabili che verranno ricordate e raccontate in futuro.
Io sto in silenzio, ascolto e guardo questa scena indimenticabile. Resterò a casa a continuare a leggere e studiare, alzarmi la mattina e tenere d’occhio ciò che loro stanno lasciando. Mi piace il ruolo di Guardiano del Faro e forse ci sono proprio tagliato. Il tempo stringe e il treno fa capolino all’orizzonte, è il momento degli ultimi saluti e degli ultimi abbracci, e io in disparte sussurro: “Buon viaggio amico, buon viaggio!”

mercoledì 30 maggio 2012

Down by law (Daunbailò)





Daunbailò 1986, di Jim Jarmusch con Tom Waits, John Lurie e Roberto Benigni (!). La storia di tre ragazzi che, per varie ragioni, si ritrovano a condividere una cella di un carcere in Lousiana. Le riprese, spesso effettuate con cinepresa fissa, oscillano tra la malinconia di un'innocenza perduta e l'ironia. Memorabile la scena in cui i tre ballano in cerchio cantando "I scream, you scream, we all scream for an icecream" generando il caos nella prigione. La pellicola in bianco e nero, fa sempre il suo effetto! 

Nemomeno


Buonasera. Il mio nome è nemo e ho meno mani a causa di una mina. Almeno sono vero incastrato tra i rovi roventi dell’inferno. D’inverno all’interno dell’eterno lamento della città sono intento a cercare stabilità. Indosso la maschera per non respirare l’ossigeno saturo di cattività. Cammino svelto e svolto per trovare il risvolto che mi dia serenità. La gente mi guarda e non mi vede, capisci? La gente mi guarda e non mi vede. Giungono mani al cielo in nome di fede e se io parlo loro nessuno mi crede. Di notte spengo le luci e osservo i vostri corpi incapaci tentare di dare sfogo a istinti rapaci. Siete mordaci, attaccati alla vita come lupi feroci. Sguscio di striscio sul pavimento liscio, dormo in strada accanto al piscio dei cani e non seguo dettami. Urlo e nessuno mi sente, la gente, il ghigno prepotente di chi non vuole capire niente. Mi muovo di nascosto disposto a trattare a qualunque costo, resisto ad attacchi violenti e potenti ai miei sentimenti. Troppo spesso mi sento in gabbia e sbotto di rabbia. Lo sai, lo sapete quanti pesci nella rete rimangono impigliati per essere poi squartati e mangiati? Questa è solo una metafora ma sapete a cosa alludo mettendomi a nudo di fronte ad una telecamera. Di sicuro pensi che non esisto, ma insisto, e resisto prima poi crederanno anche in me, considerando il fatto che nessuno credeva nemmeno in cristo.  Il bello è che siamo in tanti discepoli dell’amore e quindi santi, contagiati dalla ricerca per il vero da quando eravamo infanti siamo coloro che vengono definiti precoci talenti. Non ci trovate in bella vista ritoccati dall’estetista ma ai margini della strada con le pietre in mano a mo di intifada. Siamo incazzati perché sfruttati e pigliati per il culo, prendiamo il volo e copriamo il mondo con un velo di mille colori, in poche parole stiamo fuori come i figli dei fiori. Invece tu che ci stai dentro scommetto che è un gran divertimento, ti vedo girare per strada contento con il cane al guinzaglio, sai, ti scatto delle foto e le ritaglio per appenderle alla porta come bersaglio e la notte mi munisco di frecce e le scaglio con rabbia. Tutto vano come un disegno sulla sabbia.

Terra!


Il sole sale lentamente dall’orizzonte e porta con sé quel po’ di luce che garantisce di distinguere i volti delle persone che mi stanno accanto. Le solite facce sporche, i soliti visi speranzosi e sofferenti. Abbiamo perso la rotta prestabilita da tempo, la bufera ha guastato ogni strumento in grado di aiutare il comandante a ritrovarla, ed ogni notte siamo tutti con il naso all’insù a leggere le stelle. Per di più la nave ha subìto gravi danni e siamo costretti a procedere a velocità estremamente ridotta. Ho di fianco un ragazzo che sta tentando di aggiustare una vecchia bussola completamente fracassata dalle intemperie. “Funzionerà” dice. Non credo ci speri veramente ma d’altronde il tempo non passa mai e la noia, scandita dal regolare movimento del mare, logora dentro. Il nubifragio ha portato con sé molte persone delle quali non conoscevo nemmeno il nome, una manciata di vite spazzate dal capriccio della natura. Ricordo l’entusiasmo che ha assalito ognuno  di noi al momento della sicurezza della partenza che era rimasta incerta sino a qualche sera prima. (Con noi c’è anche qualche giovanissimo in cerca di fortuna o magari costretto a fuggire, in ogni caso intraprendente e sicuramente noncurante dei pericoli che lo attendevano.) Siamo salpati assieme ad altre due imbarcazioni, su una delle quali è imbarcato mio genero, di modeste dimensioni, e  con le quali abbiamo perso i contatti dopo la tempesta di tre giorni fa. In questo momento potrebbero essere dovunque in mezzo al mare, forse tratti in salvo oppure a picco sott’acqua. Francamente cerco di non pensarci e tento di focalizzare la mia attenzione su qualcos’altro. Ci sono dei marinai che stanno discutendo animatamente per un pezzo di pane, qualcuno tenta di calmarli ma i più fanno finta di niente, spesso è la cosa più giusta da fare. Ora il sole comincia a scaldare la pelle che è già leggermente bruciata nei punti più esposti. Tra qualche ora il caldo si farà infernale e la sete sarà più difficile da sopportare. Non ricordo da quante ore non bevo un goccio d’acqua, le scorte stanno esaurendo e c’è chi già sta cominciando a risentirne. Uno dei più giovani è stremato al suolo e non si muove da ore dicono. Forse è morto ma nessuno ha il coraggio di sincerarsene. Un uomo sulla quarantina con la barba folta se ne sta seduto cavalcioni sulla balaustra di poppa, ha fabbricato una canna da pesca rudimentale e ogni qual volta un pesce abbocca all’amo lo solleva, lo guarda per qualche minuto e poi lo rigetta in mare sorridendo. Mi alzo per fare qualche passo e scacciare l’intorpidimento delle gambe, e tutto ciò che vedo ora attorno è isolamento e disperazione. Dalla cabina di comando esce Cristoforo, il comandante della nave. Sta parlando in maniera frenetica ad un uomo che lo segue con lo sguardo fisso a terra , quest’ultimo non sembra essere molto contento di quello che sta sentendo e fa meccanicamente cenno di sì con la testa, poi urla dei comandi a qualche marinaio a prua e si siede sulle scale che portano alla stiva. I nostri sguardi si incrociano e noto il suo sguardo smarrito e impaurito. Provo a sorridergli e l’unica cosa che ricevo in cambio è un amaro sorriso di rassegnazione stampato sul volto. Immagino che Cristoforo non gli abbia detto qualcosa di positivo, è importante però che il senso di smarrimento non si propaghi tra gli uomini a bordo altrimenti sarebbe un disastro. Sappiamo benissimo tutti quanti che se non dovessimo giungere a destinazione entro breve sarà sicuramente la nostra rovina. Sacrifici buttati al vento. Penso a quello che mi sono lasciato alle spalle. Alle serate d’estate che sembrano invitare dolcemente a sdraiarsi in cortile, a mia moglie che profuma d’arancio, alle strade del mercato colme di gente che urla e sbraita, all’odore della salsedine che giunge dal mare quando tira vento. L’acqua del mare invece qui è così tanta che mi dà la nausea. Il sapore di sale sulle labbra mi è indigesto e non posso fare altro che fantasticare per non pensare al malessere fisico e mentale che regna sulla barca e non esserne intaccato.
Sono ore che ci muoviamo lentamente e che non accade nulla di rilevante, percepisco anche ad occhi chiusi l’atmosfera di malumore che serpeggia tra di noi. Tutto ad un tratto però si sente un lontano gracchiare, io balzo immediatamente in piedi guardando i miei compagni e noto che non tutti hanno sentito quello che ho sentito io. Pian piano poi i versi si fanno sempre più chiari e distinti, sempre più vicini, e la gente sull’imbarcazione comincia ad esultare festante. Dopo un’ora finalmente i gabbiani si vedono e iniziano a danzarci attorno come se ci stessero corteggiando, all’orizzonte scorgiamo un lembo di terra ferma e urla di giubilo si ergono al cielo. “Terra! Terra!”. Cristoforo fa capolino dalla postazione di comando e agita le braccia in segno di vittoria. Intanto, man mano che ci avviciniamo alla costa, vediamo venirci incontro un paio di grosse imbarcazioni con una grossa striscia rossa trasversale sui fianchi. Una volta che ci hanno raggiunti iniziano a girarci attorno come se ci stessero studiando. Cristoforo parla la loro lingua e urla qualcosa, sembra spaventato ma sicuro di sé. Poi d’un tratto le due imbarcazioni, con a bordo uomini abbronzati in divisa, iniziano a scortarci a riva e una volta scesi ci prendono uno ad uno e ci indirizzano verso  un pullman attorno al quale una decina di persone con telecamere e macchine fotografiche si è accalcata freneticamente. Qualcuno di noi dice di capire un po’ l’italiano e inizia a tradurre tutto ciò che riesce a captare in mezzo alla confusione e al trambusto. “Dicono che siamo stati fortunati, che hanno ritrovato le altre due imbarcazioni completamente distrutte e con a bordo nessun superstite, dicono che ora ci portano in un posto caldo e tranquillo e che poi ci rispediscono a casa, dicono…”

sabato 26 maggio 2012

Psicologia


la violenza è il grido di dolore della mente,
la calma il suo sorriso,
il sorriso il suo segno d'amore.
Il dolore è il grido di violenza della mente
il sorriso la sua calma,
la calma il suo segno d'amore.

venerdì 25 maggio 2012

Commiato


Locvizza il 16 Ottobre 1916


Gentile
Ettore Serra
poesia
è il mondo l’umanità
la propria vita
fioriti dalla parola
la limpida meraviglia
di un delirante fermento

Quando trovo
in questo mio silenzio
una parola
scavata è nella mia vita
come un abisso


Giuseppe Ungaretti.




Presentando questa lirica vorrei tralasciare ogni commento estetico, biografico e  storico-letterario (poiché non possiedo gli strumenti adatti, né l'interesse a farlo in questa sede), passando direttamente a ciò che più, a mio parere, può essere interessante notare. Innanzi tutto "poesia/ è il mondo l'umanità/ la propria vita/ fioriti dalla parola". Non c'è qui niente di settoriale o complicato, appartenente ad una elitaria casta di intellettuali: poesia è il mondo intero, la natura con le creature che la abitano, le piante, gli insetti, gli animali. L'acqua che scorre libera. Poesia è l'umanità intera e la vita di ogni individuo che la compone. Il tutto fiorito magicamente e prodigiosamente dalla parola, creatrice ed evocatrice, sommo attimo di estrema lucidità davanti allo spettacolo del mondo. Trovare il supporto salvifico della parola è e sempre sarà, per il poeta, un gesto faticoso e incessante. Un eterno scavare dentro sé stesso per tuffarsi in un profondo abisso dal quale attingere l'immortalità della parola.

mercoledì 23 maggio 2012

Martedì


Una mattina come le altre, in ritardo come le altre. Il suono della sveglia invade fastidiosamente il sonno profondo e la posticipo fino all’impossibile. Caffè al volo e subito in macchina ad infilarmi nel traffico infernale. La vicina saluta con la mano non ho il tempo per rispondere, mai. Questa diamine di superstrada è sempre maledettamente intasata, di questo passo anche oggi arriverò tardi al lavoro. Il suono dei clacson è assordante, mi inserisco anche io in questa anomala orchestra, assolo da far paura. E spostati! E impara a guidare! Non è possibile andare avanti così, domani piazzo una bomba. Dopo la solita ora nel traffico riesco a raggiungere la fermata della metro che ogni giorno mi porta in città, una volta arrivato sarà il turno dell’autobus che è regolarmente in ritardo. Ho pensato centinaia di volte di andare ad abitare in centro ma preferisco vivere in periferia e fare ogni mattina la solita ora e mezza di strada per arrivare in ufficio. La stazione della metro è piena zeppa di gente, i soliti barboni abbandonati sul ciglio del sottopasso che ancora dormono, beati loro, altro che. Il mio treno arriva tra 2 minuti e se non mi sbrigo rischio di perderlo, sorpasso una mamma con passeggino e due ragazze estremamente impedite col biglietto per l’ingresso ai binari Veloci! Veloci!. Qualcuno urla il mio nome, non mi giro, non ho intenzione di perdere il treno per nessun motivo al mondo, nemmeno fosse il Presidente degli Stati Uniti in persona. Arrivo sui binari e lo prendo per un soffio, mi sento a disagio in mezzo alla gente che si appoggia su di me per non perdere l’equilibrio. Il monitor passa le previsioni del tempo, anche oggi una giornata di sole. Sono più felice nelle giornate serene, odio solo l’idea di uscire di casa con l’ombrello, ingombra. Un uomo sulla quarantina, decisamente single, sta consumando in piedi una ciambella al cioccolato che imbratta indecentemente il suo volto. Sembra contento. Io non riuscirei mai e poi mai a consumare un pasto qualunque in piedi, in metro per lo più. Proprio accanto a me c’è un ragazzo con le cuffie più grandi delle sue orecchie e della testa messe insieme, volume assordante e sguardo inebetito. Riesco perfettamente a sentire la musica che sta ascoltando e mi irrita molto. Smettila, smettila!. Le porte si aprono e la gente sguscia fuori come topi affamati, se non sto attento sono buoni di calpestarmi questi qua! Faccio lo slalom tra decine di individui tutti intenti a pensare ai fatti loro, migliaia di pensieri che viaggiano alla velocità della luce e si intrecciano tra loro, si scontrano e stridono e volteggiano incrociandosi. Un ragazzo con lo sguardo basso mi tira uno spintone degno di un giocatore di Football, se fossi un po’ più giovane gli mostrerei io come si placa a dovere. Uscendo dalla metro vengo assalito dai profumi della Grande Mela, i chioschi ai lati delle strade, lo smog del traffico intenso, il caffè del bar all’angolo. Il semaforo pedonale si colora di giallo e poi di rosso e, come per magia, tutti quanti si bloccano all’istante. Nessuno ti guarda in faccia qui, sei un numero, uno dei tanti. La tua persona è vista in funzione alla tua capacità di produrre, smetti di essere funzionale, smetti di essere una persona. Tutto questo però è affascinante, scatta il verde e tutti di nuovo in marcia, come burattini guidati dall’alto degli immensi grattacieli, che si stagliano sopra di noi e ci proteggono. Una volta lessi in un libro che gli esseri umani non guardano mai in alto quando camminano. È divertente poter cambiare punto di vista, tutto si sdrammatizza, come guardare uno spettacolo in galleria. Oggi l’autobus per fortuna è puntuale e dopo la solita sgomitata per salirci sopra, sono ormai quasi giunto in ufficio. Il sole inizia timidamente a fare capolino tra i giganti di cemento e l’aria è azzurra e grigia. Difficile incontrare una giornata completamente limpida qui, immersi nello smog. Scendo dall’autobus e mi tuffo nella miriade di persone che affollano il World Trade Center la mattina. Entro nel palazzo settentrionale delle Twin Towers in cui lavoro, i monitor all’ingresso confermano quello che già avevo letto su quelli nella metro, oggi, Martedì 11 Settembre, sole.

Mèliés



Ad un osservatore poco accorto, il cinema di George Mèliés potrebbe apparire tedioso, ripetitivo. Lo scoglio dell'assenza di suoni, della fissità della cinepresa, della scarsa qualità dell'immagine farebbe abbandonare la visione a chiunque dopo pochi secondi. Se solo invece ci si tuffasse con la mente nell'epoca in cui i suoi cortometraggi furono realizzati, ecco che ciò che potrebbe apparire noioso, diventa entusiasmante. Egli fu il primo ad intuire che il cinematografo, l'apparecchio inventato dai fratelli Lumière alla fine dell'800, aveva la capacità di far rivivere i sogni, di crearne di nuovi, di realizzare aspirazioni nemmeno mai immaginate prima. Da grande illusionista quale era, iniziò così una vasta produzione di cortometraggi nei quali creature fantastiche, costellazioni, pianeti e uomini del suo tempo convivono come in un mondo sospeso nel tempo; un mondo in cui andare sulla luna, o raggiungere il Polo a bordo di un improbabile velivolo sembrano essere fatti ordinari. E ancora una lunga serie di giochi illusionistici, di scene comiche e paradossali. Tutti elementi che compongono il "viaggio attraverso l'impossibile" di un uomo che vide nel cinema la possibilità di rendere concreti i romanzi di Jules Verne, le credenze popolari, i sogni più segreti. La sua esperienza da cineasta non durò poi a lungo, le grandi case cinematografiche schiacciarono i piccoli produttori indipendenti ed egli si ritirò a vendere giocattoli in una stazione ferroviaria, come il film Hugo racconta magistralmente. Quello che oggi di lui ci resta è, sicuramente, la prova che le favole, i sogni, le avventure, sono reali, basta saperle cogliere e crederci fino in fondo. Come i bambini.

L'ombrello volante

C’era un volta un bambino che passava intere giornate col naso all’insù, a guardar gli uccelli far mille capriole e giravolte. Una volta cresciuto e divenuto adulto il ragazzo, anche se più raramente, si trovava ancora col naso all’insù ad ammirare ora i monti, ora le nuvole, ora di nuovo gli uccelli. C’erano dei giorni in cui, completamente libero da qualsiasi impegno, il ragazzo si armava di buona volontà e preso il necessario, partiva per una piccola escursione in montagna, cosa che lo rendeva più felice di qualsiasi altra cosa al mondo, perché lo faceva sentire più vicino ad essi.
Nei momenti in cui le sue incombenze quotidiane gli permettevano di dedicarsi a se stesso, il ragazzo pensava a tutte le soluzioni possibili, e anche a quelle impossibili, che avrebbero potuto aiutarlo nel conseguimento del suo obiettivo: volare lassù in alto, come gli uccelli. Pensa e ripensa, un giorno decise di mettere in pratica un’idea che gli era venuta in mente in un giorno di pioggia. Affacciato al balcone di casa sua, vide una signora di mezz’età, con un cagnolino al guinzaglio ed un passo alquanto incerto, essere letteralmente  frenata dal suo gigantesco ombrello che, contrastato dal vento, la faceva indietreggiare piuttosto che avanzare. Il ragazzo, allora, con un calcolo matematico impeccabile, notò che se si fosse ipoteticamente lasciato cadere dal solaio con un ombrello di grandezza pari a quello della signora, avrebbe sicuramente avuto la possibilità di volare, poiché l’ombrello stesso, sarebbe stato contrastato dal vento e quindi impedito nella sua altrimenti inesorabile caduta. Calcolò tutto nei minimi dettagli e, quando il tempo lo permise, si diresse verso il solaio con l’aria di un soldato diretto in guerra e non ebbe nemmeno l’accortezza di pensare  che, se avesse incontrato qualcuno, avrebbe fatto la figura di un perfetto idiota, poiché stava dirigendosi in solaio con un ombrello, in una giornata accecata dal sole. Per fortuna nessun vicino impiccione se ne accorse, o almeno così gli parve. Giunto in solaio il ragazzo si destreggiò nello slalom di antenne e parabole, e raggiunse vittorioso il parapetto del palazzo. Mise da parte quel po’ d’ansia che caratterizza ogni grande passo dell’umanità e si tuffò.
I primi secondi furono di grande entusiasmo poiché sembrava proprio che i suoi calcoli lo avessero portato al risultato sperato, stava appena cominciando a godersi il volo degli uccelli, quando, qualcosa andò storto. Fu probabilmente un piccolo errore di calcolo o l’altezza di lancio troppo esigua (il solaio si trovava solo al quinto piano): il giovane uccello non ebbe nemmeno il tempo di spiegare le ali che si trovò impigliato, o meglio, fortunatamente franato sui rami di un albero sottostante, che toccava il suo punto più alto circa all’altezza del secondo piano. L’ombrello si lacerò quasi completamente e il ragazzo se la cavò con qualche graffio, e una bella strigliata dalla madre. Da quel giorno in poi non passò istante senza che egli non pensasse ad altri modi per realizzare il suo sogno. Rivide i suoi calcoli, costruì modellini e riparò l’ombrello. Passarono addirittura  anni senza che il ragazzo dimostrasse anche l’ombra di un comportamento anomalo, durante i quali trovò il posto adatto alla sua impresa. Si trattava di un’immensa scogliera a picco sul mare. La vista da lassù era mozzafiato, le barche erano talmente minuscole che parevano delle piccole formiche adagiate su una distesa azzurra e luccicante. La si poteva raggiungere solamente tramite un impervio sentiero, che richiedeva un grosso sforzo fisico e una discreta preparazione atletica.
Così un giorno, evitando di insospettire la madre, controllò che tutto fosse pronto, e partì per la scogliera. Prima di eseguire il tanto atteso lancio estrasse dal suo zaino una piccola macchina fotografica che impostò in modalità autoscatto, e appoggiò sopra una pietra a picco sul mare. Tutto era pronto: cielo nitido, niente nuvole, niente vento. Il ragazzo, senza sembrare troppo preoccupato, schiacciò con un piccolo movimento dell’indice il pulsante d’avvio dell’autoscatto: il conto alla rovescia era partito. Dieci secondi al decollo, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, il ragazzo muove i primi passi, tre, la testa ormai sgombra da qualsiasi pensiero, due, la vertigine si traduce in adrenalina, uno, il salto perfetto come da copione, CLICK!
La foto fece il giro del mondo, il ragazzo probabilmente anche. L’ombrello fu ritrovato a 1000km di distanza su una spiaggia in mezzo all’oceano atlantico, lo zainetto a 1000km nella direzione opposta. Il corpo mai ritrovato. Oggi, nel punto in cui il ragazzo prese il volo sorge una targhetta scolpita nella roccia, sopra la quale venne trovata la macchina fotografica. La targhetta recita così: “Da questa scogliera prese il volo il ragazzo volante/ che volle librarsi in aria, come un uccello/ simbolo dell’inesauribile volontà umana di realizzare i propri sogni / e di raggiungere il sole.” Centinaia di persone visitano ogni anno la scogliera. Fiori, foto, pensieri, vengono lasciati ai piedi del masso recante la targhetta. Se invece di guardare in basso verso la pietra, alzassero lo sguardo verso il cielo, probabilmente si accorgerebbero di quello strano uccello che, un po’ sgraziatamente, volteggia leggero nell’aria, là, vicino al sole.

domenica 13 maggio 2012

Il dono


Accetta questo regalo, amico mio
è un dono sincero.
quando poi saremo poveri entrambi
avremo l'un l'altro.