mercoledì 30 maggio 2012

Terra!


Il sole sale lentamente dall’orizzonte e porta con sé quel po’ di luce che garantisce di distinguere i volti delle persone che mi stanno accanto. Le solite facce sporche, i soliti visi speranzosi e sofferenti. Abbiamo perso la rotta prestabilita da tempo, la bufera ha guastato ogni strumento in grado di aiutare il comandante a ritrovarla, ed ogni notte siamo tutti con il naso all’insù a leggere le stelle. Per di più la nave ha subìto gravi danni e siamo costretti a procedere a velocità estremamente ridotta. Ho di fianco un ragazzo che sta tentando di aggiustare una vecchia bussola completamente fracassata dalle intemperie. “Funzionerà” dice. Non credo ci speri veramente ma d’altronde il tempo non passa mai e la noia, scandita dal regolare movimento del mare, logora dentro. Il nubifragio ha portato con sé molte persone delle quali non conoscevo nemmeno il nome, una manciata di vite spazzate dal capriccio della natura. Ricordo l’entusiasmo che ha assalito ognuno  di noi al momento della sicurezza della partenza che era rimasta incerta sino a qualche sera prima. (Con noi c’è anche qualche giovanissimo in cerca di fortuna o magari costretto a fuggire, in ogni caso intraprendente e sicuramente noncurante dei pericoli che lo attendevano.) Siamo salpati assieme ad altre due imbarcazioni, su una delle quali è imbarcato mio genero, di modeste dimensioni, e  con le quali abbiamo perso i contatti dopo la tempesta di tre giorni fa. In questo momento potrebbero essere dovunque in mezzo al mare, forse tratti in salvo oppure a picco sott’acqua. Francamente cerco di non pensarci e tento di focalizzare la mia attenzione su qualcos’altro. Ci sono dei marinai che stanno discutendo animatamente per un pezzo di pane, qualcuno tenta di calmarli ma i più fanno finta di niente, spesso è la cosa più giusta da fare. Ora il sole comincia a scaldare la pelle che è già leggermente bruciata nei punti più esposti. Tra qualche ora il caldo si farà infernale e la sete sarà più difficile da sopportare. Non ricordo da quante ore non bevo un goccio d’acqua, le scorte stanno esaurendo e c’è chi già sta cominciando a risentirne. Uno dei più giovani è stremato al suolo e non si muove da ore dicono. Forse è morto ma nessuno ha il coraggio di sincerarsene. Un uomo sulla quarantina con la barba folta se ne sta seduto cavalcioni sulla balaustra di poppa, ha fabbricato una canna da pesca rudimentale e ogni qual volta un pesce abbocca all’amo lo solleva, lo guarda per qualche minuto e poi lo rigetta in mare sorridendo. Mi alzo per fare qualche passo e scacciare l’intorpidimento delle gambe, e tutto ciò che vedo ora attorno è isolamento e disperazione. Dalla cabina di comando esce Cristoforo, il comandante della nave. Sta parlando in maniera frenetica ad un uomo che lo segue con lo sguardo fisso a terra , quest’ultimo non sembra essere molto contento di quello che sta sentendo e fa meccanicamente cenno di sì con la testa, poi urla dei comandi a qualche marinaio a prua e si siede sulle scale che portano alla stiva. I nostri sguardi si incrociano e noto il suo sguardo smarrito e impaurito. Provo a sorridergli e l’unica cosa che ricevo in cambio è un amaro sorriso di rassegnazione stampato sul volto. Immagino che Cristoforo non gli abbia detto qualcosa di positivo, è importante però che il senso di smarrimento non si propaghi tra gli uomini a bordo altrimenti sarebbe un disastro. Sappiamo benissimo tutti quanti che se non dovessimo giungere a destinazione entro breve sarà sicuramente la nostra rovina. Sacrifici buttati al vento. Penso a quello che mi sono lasciato alle spalle. Alle serate d’estate che sembrano invitare dolcemente a sdraiarsi in cortile, a mia moglie che profuma d’arancio, alle strade del mercato colme di gente che urla e sbraita, all’odore della salsedine che giunge dal mare quando tira vento. L’acqua del mare invece qui è così tanta che mi dà la nausea. Il sapore di sale sulle labbra mi è indigesto e non posso fare altro che fantasticare per non pensare al malessere fisico e mentale che regna sulla barca e non esserne intaccato.
Sono ore che ci muoviamo lentamente e che non accade nulla di rilevante, percepisco anche ad occhi chiusi l’atmosfera di malumore che serpeggia tra di noi. Tutto ad un tratto però si sente un lontano gracchiare, io balzo immediatamente in piedi guardando i miei compagni e noto che non tutti hanno sentito quello che ho sentito io. Pian piano poi i versi si fanno sempre più chiari e distinti, sempre più vicini, e la gente sull’imbarcazione comincia ad esultare festante. Dopo un’ora finalmente i gabbiani si vedono e iniziano a danzarci attorno come se ci stessero corteggiando, all’orizzonte scorgiamo un lembo di terra ferma e urla di giubilo si ergono al cielo. “Terra! Terra!”. Cristoforo fa capolino dalla postazione di comando e agita le braccia in segno di vittoria. Intanto, man mano che ci avviciniamo alla costa, vediamo venirci incontro un paio di grosse imbarcazioni con una grossa striscia rossa trasversale sui fianchi. Una volta che ci hanno raggiunti iniziano a girarci attorno come se ci stessero studiando. Cristoforo parla la loro lingua e urla qualcosa, sembra spaventato ma sicuro di sé. Poi d’un tratto le due imbarcazioni, con a bordo uomini abbronzati in divisa, iniziano a scortarci a riva e una volta scesi ci prendono uno ad uno e ci indirizzano verso  un pullman attorno al quale una decina di persone con telecamere e macchine fotografiche si è accalcata freneticamente. Qualcuno di noi dice di capire un po’ l’italiano e inizia a tradurre tutto ciò che riesce a captare in mezzo alla confusione e al trambusto. “Dicono che siamo stati fortunati, che hanno ritrovato le altre due imbarcazioni completamente distrutte e con a bordo nessun superstite, dicono che ora ci portano in un posto caldo e tranquillo e che poi ci rispediscono a casa, dicono…”

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