Giovedì
9 febbraio : La politica
La
vita è come un autobus:
per
quanti stronzi ci possano essere dentro,
uno
può sempre guardare fuori dal finestrino.
Ero
arrivato a questa conclusione una domenica mattina della primavera
precedente. Avevo sentito l'ennesimo padre di famiglia, accompagnato
da elegantissima signora e dessert di figli laureandi di quelli di
tipo "fiore all'occhiello", che, vestito in maniera troppo
giovanile, si lamentava dell'assenza della popolazione autoctona
nella grande piazza invasa dal sole. "Ormai ci sono solo
indiani, rumeni e napoletani", sbuffava. Ne parlava come se gli
abitanti del posto, quelli veri, fossero stati rapiti e venissero
tenuti legati con la fronte premuta sul vetro delle finestre che si
affacciavano sulla piazza. Costretti a subire lo spettacolo
disgustoso della diversità. Cosa stai dicendo, amico? La cosa mi
sembrava ancora più assurda in quel contesto rurale, in cui la
varietà tonale e la serenità familiare completavano un quadretto
che io , personalmente, trovavo dolcissimo. "C'è da avere
paura", diceva. Scambiava sguardi d'intesa con altri membri del
suo ingroup, come se fosse in balia degli eventi. "Stiamo
perdendo la nostra identità". Si lamentava. Non ho mai capito a
quale identità fanno riferimento queste persone. Mi era difficile
pensare allo stereotipo, sicuramente esagerato, dell'uomo del posto:
grandissimo bestemmiatore, decisamente poco acculturato, il cui
valore è dettato, di fronte ai suoi simili, dal numero di volte in
cui al mese si è vomitato addosso per le sbronze. "Cazzo –
pensai – speriamo proprio che qualcuno li fermi questi
negriterroni!" Che peccato sarebbe, per tutti noi, perdere la
nostra identità. Di certo, questi rispettabilissimi signori, non
pensano mai alla tragedia che la scomparsa degl'immigrati causerebbe
alle loro discussioni e alle loro feste, cosiddette, tradizionali.
Non avrebbero più niente da dirsi, c'è da scommettersi. Non sarebbe
più facile accettare la diversità e farne uno strumento? La
cosidetta identità non è forse frutto degli eventi? Non deriva
forse dalle esperienze di questa gente? E non sono anche queste
esperienze? Per quale motivo dovremmo, così piccoli e nudi, tentare,
tenendoci per mano, di arginare il fiume della storia? Per salvare
che cosa? Finiremmo coll'annegare abbracciati, orgogliosi della
nostra similarità. E questo, purtroppo, succede ogni giorno.
Per
fortuna una soluzione a questo indomabile fastidio esiste: guardare
fuori. Rendersi conto dell'indicibile grandezza dello spettacolo che
ogni giorno ci viene offerto da chi di dovere. Chiamiamolo Dio. O
Balù, non che faccia differenza. La bellezza del mondo, così grande
rispetto allo schifo dell'uomo, che quasi quasi se ne fotte.
Giovedì
9 febbraio mi ero svegliato incazzato. Avevo sognato l'amore ed ero
rimasto deluso, una volta aperti gli occhi. Che ingiustizia, i sogni.
Preti pettegoli a cui è impossibile mentire. Non mi sentivo
assolutamente in colpa per aver driblato il seminario. "Che si
fottano", pensavo ingenuo. Come se non avessi bisogno anche di
quegl'insegnamenti, per quanto inutili. Decisi comunque di andarci,
mi serviva una giustificazione. "Sono stato male",
perfetto. "Finalmente sono stato bene", avrei dovuto dire.
Arrivando
nel piazzale centrale del parco, vidi il giovane sorridente. Se ne
stava in piedi a camminare in tondo, in un circolo vizioso senza
fine. Parlava tra sè e sè:
"Ad
Ostia si ostinano ad ostinarsi, sbattere la testa contro il muro.
L'essenza nel fermo mento o nel cambiamento? Prego il divenire gli
chiedo di venire. L'adattarsi sempre sempre sempre ma nessuno vuole
non avere ragione, avere il torto. Arriva un tordo, loro lo sanno. Il
soldo ha assoldato misero l'esercito esercita il demonio. Esercizi,
per il demonio. Ne abbiamo bisogno? La soldisfazione piuttosto. Anche
attraverso strumenti fermi nel tempo, elaborare il divenire. Fermi
cambiamenti nei tempi. E hai risoltoi tuoi problemi, i nostri
problemi, i problemi di tutti."
Mi
avvicinai per farmi vedere, mi vide. Salutai, non rispose. Decisi di
rispondere a tono :
"Capisco
quello che intendi. Sistemi politici si ostinano a presentarsi fermi
di fronte a una società che, inevitabilmente, è in movimento. In
totale e costante cambiamento. Come può un insieme di regole ferme
essere applicata ad un'entità viva che, continuamente, si divincola
mossa dal solletico del progresso? Hai ragione. Ora capisco perchè
sembrano sempre così vecchi, erano già vecchi quando sono nati.
Quando sono stati nuovi, questi sistemi, per un po' hanno funzionato.
Tutti, all'inizio, hanno funzionato. E poi rovina. Il cambiamento
dunque.Ma come attraversarlo? Come vivere il passaggio? Come
addomesticare il divenire al nostro servizio?"
Mi
sembrava per la prima volta di parlare al suo livello. Non capivo
bene come ma avevo interpretato il suo pensiero nonostante la sua
incoerenza grammatica e di concetti. Ci stavamo intendendo, ne ero
sicuro. La cosa mi faceva sentire ancora più vivo. Attesi per
qualche secondo una risposta che, puntuale, arrivò.
"
Hai proprio passato il passo del Gransasso amico. Come fidanzare la
stasi e il movimento mi chiedi. Non dovresti chiederlo a me mi viene
da venire, da dire. Terzo me, la scienza abbraccia questo dilemma e
ne fa notti insonni. La ricercazione! Loro lo sanno. Le uniche regole
ferme che ci servono sono quelle per le cose non ferme. Per il
movimento. Regole ferme e mutabili allo stesso tempo, capaci di
autodeterminarsi nel tempo. Loro lo sanno credimi. Sono norme come
orme, sui passi del progresso. Una serie di storie che permettono di
rendersi conto dei cambiamenti, di interpretarli e di adattarsi."
Non
ci avevo mai pensato. Tutti si ostinano a riproporre sistemi che sono
già stati usati e che hanno già fallito. Nessuno si rende conto del
cambiamento. Nessuno è disposto a cedere un po' del proprio potere
per il mutamento, unico motore della società che, costantemente, si
muove. A ciclio continuo appaiono sullo schermo sempre gli stessi
volti. Non che questi abbiano sbagliato in passato, non che siano
stati bravi. Non divremmo dire "bravi", perchè tutti siamo
conseguenza di quello che abbiamo vissuto, non dovremmo parlare di
"cattive intenzioni" perchè ogni intenzione non è cattiva
per chi la mette in atto. Dovremmo imparare a distinguere chi ha le
qualità per governare e, nel senso più buono del termine ,
servirsene. Servirsene finchè è in grado di farlo e poi salutarsi.
Senza rancore, amici come prima. Bisognerebbe formulare una volta per
tutte una serie di criteri universali di cambiamento. Valori
oggettivi che determinano la fine delle epoche e che ne dettano
l'evoluzione verso il benessere di tutti gli uomini. Risposi con
poche semplici parole ma che volevano dire tutto:
"Esatto,
ci siamo capiti."
Non
avevo potuto fare a meno di notare, mentre lo ascoltavo, che quello
che lunedì mi era sembrato un blaterare senza senso giorno dopo
giorno prendeva sempre più la forma di un discorso coerente,
compiuto e grammaticalmente corretto. Questa evidenza appariva ancora
più stravagante se considerata dal punto di vista delle mie
emozioni. Mi sembrava che non fosse lui a diventare più chiaro ma
che fossi io che, giorno dopo giorno, imparavo a decifrarlo. Decisi
di salutarlo recitando a memoria un passo di Fernando Savater:
"D'altronde
- dissi - non è la politica che provoca i conflitti: buoni
o cattivi, vivificanti o mortali, i confilitti sono sintomi che fanno
necessariamente parte della vita in società..e paradossalmente
confermano quanto siamo disperatamente sociali."
Mi
guardò complice. Che bella sensazione. Camminai verso il seminario
quasi trionfante.
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