Mercoledì
8 febbraio : La giustizia
Quando
ci si ritrova nudi di fronte alle proprie responabilità quasi mai si
riesce ad abbracciarle. L'amor proprio sotto forma di panico e
fragilità ci suggerisce in silenzio di schivarle, di fuggirne via. E
così facciamo, trovando, con straordinaria abilità e fantasia,
soluzioni impossibili. E che talento abbiamo tutti in questo,
millenni di evoluzione racchiusi in semplici gesti. Quel timore
esistenziale, il "dolore di esistere" che costringe un
numero incredibili di giovani a rinunciare al rischio dell'amore, che
li porta ad amare oggetti inanimati che non possono intaccare la loro
autostima, in quanto morti. Questi, colpevoli di silenzio, contagiano
l'essenza del loro vivere, stuprandoli in focose notti di xbox e
droghe leggere. L'impotenza acquisita, vero male del nuovo secolo,
sarà forse il motivo dell'estinzione dell'uomo. La voglia di non
vivere, alla fine ci ammazzerà e , tutto sommato, io non ci vedo
nulla di strano. Se il capitalismo ci vuole oggetti, oggetti saremo,
senz'anima finiremo imbevuti di trasgressione, un marchio registrato
impresso a fuoco sul petto e, finalmente, senza limiti. Svegliatomi,
evidentemente di buon'umore, pensavo a tutto ciò mentre schiacciavo
il tasto "play" dello stereo, in riproduzione "Il
Suicidio del Samurai", capolavoro infinto dei Verdena. Avanti
così.
Regalandomi
un bis di sorpresa e gratitudine, ricordai quasi subito la ventata di
benessere che ero riuscito a sfiorare il giorno prima, estasi
perfetta in acquarelli vegetali. Ne volevo ancora. Dio quanto ne
volevo ancora. Nonostante il freddo uscii sul davanzale in mutande,
il vento gelido mi accarezzava per darmi il buongiorno. "Buongiorno
a te", sussurai. Avevo riconcquistato la capacità di
concentrarmi sul presente, ero parte del mondo, di nuovo. Ne volevo
ancora. Questa sensazione di vita, me ne rendevo conto, era per me
intimamente e segretamente collegata agl'occhi di quel ragazzo nel
parco. Quanto lontani e quanto vicini eravamo stati in quell'incrocio
di sguardi. Quante novità silenziose nella mia vita, da quel
momento. Era strano come, camminando verso il parco per la terza
volta quella settimana, mi guardavo intorno cercando negl'occhi della
gente che incrociavo un riflesso di me che mi aspettavo diverso.
Pensavo che se avessi incontrato un amico, non mi avrebbe
riconosciuto. Mi sentivo altro rispetto a prima, ma questo ormai
l'avrete capito.
Quando
arrivai nel centro del parco, dove quattro strade si incontravano in
una specie di piazzale, trovai il mio maestro seduto composto sulla
solita panchina. Sembrava più umano delle altre volte, aveva le
labbra leggermente serrate e una goccia di saliva le univa
riflettendo il verde degl'alberi. Portava un paio di jeans consumati
con degli strappi all'altezza del cavallo e un maglione scuro da cui
spuntava il collo di una polo bianca. Sembrava assente. Mi avvicinai
e, decidendo di mostrarmi compassionevole, mi sedetti al suo fianco.
Il timore di uno scatto improvviso mi parlava da lontano, come l'eco
delle parole di un padre premuroso. Non fece nulla, come se non ci
fossi. Decisi di prendere l'iniziativa, gli ero riconoscente e volevo
assolutamente dirglielo:
"Sai,
devo ringraziarti. Le tue parole di ieri mi hanno scosso. Non so se
era tua intenzione farlo ma hai risvegliato in me qualcosa che
dormiva da anni..."
Sorrise
beffardo. Facendolo la goccia di saliva si allungò fino a sdoppiarsi
in figlie che raggiunsero ognuna un labbro diverso. Teneva lo sguardo
fisso in avanti, come fosse cieco. Mi sentivo un imbecille, forse
avevo osato troppo o troppo poco, pregavo per un gesto risolutore.
All'improvviso parlò:
"La
primavera porterà una gazza una ragazza Giustina il nome..Giustezza
- parlava sottovoce e dovetti avvicinarmi allungando il collo per
sentire – ella si sdoppia in ogni momento e le sua parti partono
per porti in un parto che le riavvicina sempre. Una ondeggia onda tra
l'uguaglianza e la singolarità per poi tornare e tornare tornare
l'altra è ferma ma di forma mutevole e muta matta di certo la legge
si legge appunto a punta patente a punti la soluzione è nell'
individualità del rapporto con gli altri mangiare le more..le more!
Si muore si muore ma le more l'amore è così..tutti si muore tutti
l'amore!"
Infine
mi guardò come per chiedermi se fosse tutto chiaro. Feci un gesto
come per dire "così così". L'accostamento del concetto di
giustizia (mi era sembrato si parlasse di quello, e avevo ragione) a
quello di amore mi aveva ricordato un filosofo francese, Jean-Luc
Nancy, che in una conferenza a dei ragazzini delle medie, parlava
dell'amore come termine ultimo e risolutore della questione della
giustizia, o almeno di quella morale. Esso è l'unica cosa che ,
universalmente, è giusto riconoscere a tutti, in quanto se ne siamo
privati inevitabilmente ci uccide. Sì ma che cos'è l'amore? L'amore
è riconoscimento, viene detto, e io sono d'accordo nel pensare a
questo come il diritto di ogni uomo di essere uomo, di poter godere
di dignità, sempre e comunque. Questo atto d'amore dev'essere, da un
punto di vista sia quantitativo che qualitativo, infinito. Non
esistono criteri di età, razza, orientamento sessuale, politico.
Siamo tutti sulla stessa barca, e stiamo affondando, cantava
qualcuno. Il diritto alla vita quindi, da un punto di vista
giuridico, deve valere quanto il diritto alla morte, e su quello non
è che si possa fare poi tanto i furbi. Non ci sono cazzi. Avevo
pensato tutto questo spezzando le parole in un continuo accavallarsi
di pensieri troppi veloci per essere detti. Mi accorsi di avere lo
sguardo fisso nel vuoto, decisi di dire qualcosa, come per rompere un
imbarazzo che non c'era.
"Nel
senso che la giustizia dev'essere uguale sia per me, che per te, che
per tutti?" Già dicendolo, mi ero sentito un idiota. Il ragazzo
mi guardò e con aria quasi seccata disse:
"Perchè
quale differenza c'è tra me e te?"
Colmo
di vergogna mi scusai balbettando mentre lui si stava già
concentrando su altro, mi sembrò che stesse seguendo una coraggiosa
farfalla con lo sguardo. Ne approfittai per eclissarmi nell'ombra dei
cipressi. Decisi di non presentarmi al seminario, mi sembrava
inutile. Tornai a casa pensando di avere la febbre. Lanciai la
tracolla e il peso dei libri le fece fare un gran tonfo sul pavimento
di finto marmo. Avevo fretta. Dovevo ripendere in mano quel libro. Lo
trovai dopo qualche minuto, sul fondo della libreria, colmo di
polvere, graffiato da milioni di "tatuaggi e cicatrici"
in forma d'appunti. Aprii a pagina 28, lessi:
"Questo
riconoscimento dev'essere infinito; è un riconoscimento che non può
avere limiti. Esso è dunque, in fondo, impossibile da realizzare
interamente – impossibile da aggiustare. Possiamo dire, dunque, che
essere giusto non è pretendere di sapere cosa è giusto; essere
giusto è pensare che ci sia ancora più giusto da trovare o da
comprendere; essere giusto è pensare che la giustizia è ancora da
compiere, che essa può esigere ancora di più e andare ancora
oltre."
Dunque,
come spesso mi succede, avevo ricordato l'incipit ma mi ero perso la
parte più interessante. Pazienza, per fortuna l'avevo ritrovata e
adesso, di certo , non l'avrei più dimenticata. Ringraziai qualcuno
di imprecisato guardandomi attorno, dissi "grazie". Ormai
ci avevo fatto l'abitudine.
Mi
gettai stanco sul letto, nonostante fosse ancora mattino e qualcuno,
sicuramente, stava ancora facendo colazione. Altri, di sicuro,
smaltivano sbornie e rifacevano l'amore per dimostrare che quella
notte non era stata un errore. Me li immaginavo toccarsi cercando di
non guardarsi. Accessi lo stereo, selezione random. Traccia numero
143, il cantante dei Wilco sussurrava:
"...Please
be patient with me...".
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