giovedì 6 dicembre 2012

Il sergente nella neve





E' pensiero comune e condiviso che esista la professione dello scrittore. Questa tesi è per certi versi sicuramente vera, per altri, totalmente falsa. Mi spiego. C'è e c'è stata senza dubbio una schiera di buoni, a volte ottimi, scrittori che si sono guadagnati da vivere grazie alla loro abilità fuori dal comune, che hanno saputo sfruttare anche in chiave economica. E per carità, in questo non c'è nulla di male. Più di una volta però, mi è capitato di leggere alcuni testi di grande livello emotivo prodotti non da personaggi di questo tipo, ma da qualcuno proveniente da altri campi del sapere, o della vita lavorativa, che per motivi di varia natura è pervenuto alla scrittura. 
Uno di questi autori è Mario Rigoni Stern. Leggendo il suo capolavoro, Il sergente nella neve (1953), ci si accorge subito che a scrivere non è un intellettuale di alto rango, ma un uomo qualunque che tenta attraverso la pagina scritta di trasporre le sue emozioni, le sue visioni della vita. A scuola, in un istituto superiore il programma canonico prevede che si debbano studiare autori, date, accadimenti che probabilmente nessuno poi ricorderà più, senza soffermarsi troppo sulla proposta di letture che possono segnare nel profondo. Io non ricordo quando lessi per la prima volta questo romanzo, né se all'epoca sapessi cosa fosse la ritirata dalla Russia o cosa fosse un'isba, ma ricordo, questo sì, il seguente passo che, per fortuna, non necessita nessun tipo di commento: 


"Corro e busso alla porta di un'isba. Entro. Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz'aria. - Mnié khocetsia iestj, - dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C'è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d'ogni mia boccata. - Spaziba, - dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. - Pasausta, - mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell'ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.
Così è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev'esservi stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell'isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un'armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di più del rispetto che gli animali della foresta hanno l'uno per l'altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere"

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