Il sole sale
lentamente dall’orizzonte e porta con sé quel po’ di luce che garantisce di
distinguere i volti delle persone che mi stanno accanto. Le solite facce
sporche, i soliti visi speranzosi e sofferenti. Abbiamo perso la rotta
prestabilita da tempo, la bufera ha guastato ogni strumento in grado di aiutare
il comandante a ritrovarla, ed ogni notte siamo tutti con il naso all’insù a
leggere le stelle. Per di più la nave ha subìto gravi danni e siamo costretti a
procedere a velocità estremamente ridotta. Ho di fianco un ragazzo che sta
tentando di aggiustare una vecchia bussola completamente fracassata dalle
intemperie. “Funzionerà” dice. Non credo ci speri veramente ma d’altronde il
tempo non passa mai e la noia, scandita dal regolare movimento del mare, logora
dentro. Il nubifragio ha portato con sé molte persone delle quali non conoscevo
nemmeno il nome, una manciata di vite spazzate dal capriccio della natura.
Ricordo l’entusiasmo che ha assalito ognuno
di noi al momento della sicurezza della partenza che era rimasta incerta
sino a qualche sera prima. (Con noi c’è anche qualche giovanissimo in cerca di
fortuna o magari costretto a fuggire, in ogni caso intraprendente e sicuramente
noncurante dei pericoli che lo attendevano.) Siamo salpati assieme ad altre due
imbarcazioni, su una delle quali è imbarcato mio genero, di modeste dimensioni,
e con le quali abbiamo perso i contatti
dopo la tempesta di tre giorni fa. In questo momento potrebbero essere dovunque
in mezzo al mare, forse tratti in salvo oppure a picco sott’acqua. Francamente
cerco di non pensarci e tento di focalizzare la mia attenzione su
qualcos’altro. Ci sono dei marinai che stanno discutendo animatamente per un
pezzo di pane, qualcuno tenta di calmarli ma i più fanno finta di niente,
spesso è la cosa più giusta da fare. Ora il sole comincia a scaldare la pelle
che è già leggermente bruciata nei punti più esposti. Tra qualche ora il caldo
si farà infernale e la sete sarà più difficile da sopportare. Non ricordo da
quante ore non bevo un goccio d’acqua, le scorte stanno esaurendo e c’è chi già
sta cominciando a risentirne. Uno dei più giovani è stremato al suolo e non si
muove da ore dicono. Forse è morto ma nessuno ha il coraggio di sincerarsene.
Un uomo sulla quarantina con la barba folta se ne sta seduto cavalcioni sulla
balaustra di poppa, ha fabbricato una canna da pesca rudimentale e ogni qual
volta un pesce abbocca all’amo lo solleva, lo guarda per qualche minuto e poi
lo rigetta in mare sorridendo. Mi alzo per fare qualche passo e scacciare
l’intorpidimento delle gambe, e tutto ciò che vedo ora attorno è isolamento e
disperazione. Dalla cabina di comando esce Cristoforo, il comandante della nave.
Sta parlando in maniera frenetica ad un uomo che lo segue con lo sguardo fisso
a terra , quest’ultimo non sembra essere molto contento di quello che sta
sentendo e fa meccanicamente cenno di sì con la testa, poi urla dei comandi a
qualche marinaio a prua e si siede sulle scale che portano alla stiva. I nostri
sguardi si incrociano e noto il suo sguardo smarrito e impaurito. Provo a
sorridergli e l’unica cosa che ricevo in cambio è un amaro sorriso di
rassegnazione stampato sul volto. Immagino che Cristoforo non gli abbia detto
qualcosa di positivo, è importante però che il senso di smarrimento non si
propaghi tra gli uomini a bordo altrimenti sarebbe un disastro. Sappiamo
benissimo tutti quanti che se non dovessimo giungere a destinazione entro breve
sarà sicuramente la nostra rovina. Sacrifici buttati al vento. Penso a quello
che mi sono lasciato alle spalle. Alle serate d’estate che sembrano invitare
dolcemente a sdraiarsi in cortile, a mia moglie che profuma d’arancio, alle
strade del mercato colme di gente che urla e sbraita, all’odore della salsedine
che giunge dal mare quando tira vento. L’acqua del mare invece qui è così tanta
che mi dà la nausea. Il sapore di sale sulle labbra mi è indigesto e non posso
fare altro che fantasticare per non pensare al malessere fisico e mentale che
regna sulla barca e non esserne intaccato.
Sono ore che
ci muoviamo lentamente e che non accade nulla di rilevante, percepisco anche ad
occhi chiusi l’atmosfera di malumore che serpeggia tra di noi. Tutto ad un
tratto però si sente un lontano gracchiare, io balzo immediatamente in piedi
guardando i miei compagni e noto che non tutti hanno sentito quello che ho
sentito io. Pian piano poi i versi si fanno sempre più chiari e distinti,
sempre più vicini, e la gente sull’imbarcazione comincia ad esultare festante.
Dopo un’ora finalmente i gabbiani si vedono e iniziano a danzarci attorno come
se ci stessero corteggiando, all’orizzonte scorgiamo un lembo di terra ferma e
urla di giubilo si ergono al cielo. “Terra! Terra!”. Cristoforo fa capolino
dalla postazione di comando e agita le braccia in segno di vittoria. Intanto,
man mano che ci avviciniamo alla costa, vediamo venirci incontro un paio di grosse
imbarcazioni con una grossa striscia rossa trasversale sui fianchi. Una volta
che ci hanno raggiunti iniziano a girarci attorno come se ci stessero
studiando. Cristoforo parla la loro lingua e urla qualcosa, sembra spaventato
ma sicuro di sé. Poi d’un tratto le due imbarcazioni, con a bordo uomini
abbronzati in divisa, iniziano a scortarci a riva e una volta scesi ci prendono
uno ad uno e ci indirizzano verso un
pullman attorno al quale una decina di persone con telecamere e macchine
fotografiche si è accalcata freneticamente. Qualcuno di noi dice di capire un
po’ l’italiano e inizia a tradurre tutto ciò che riesce a captare in mezzo alla
confusione e al trambusto. “Dicono che siamo stati fortunati, che hanno
ritrovato le altre due imbarcazioni completamente distrutte e con a bordo
nessun superstite, dicono che ora ci portano in un posto caldo e tranquillo e
che poi ci rispediscono a casa, dicono…”
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