Articolo pubblicato sul numero di febbraio 2013 del periodico universitario Charta Sporca (http://chartasporca.blogspot.it/).
E' una
giornata di fine ottobre e, come al solito, fuori piove e io non ho l'ombrello.
Arrivo in aula molto presto e molto fradicio. Si sente nell'aria che è un
giorno particolare, e ho infatti già intravisto un cameraman Rai con una
videocamera del 1492. Lui deve essere un po' più tardo, di poco però. Mi
scolo velocemente due caffè Illy dalla macchinetta automatica, e inizio ad
aspettare. Piano piano cominciano ad arrivare i primi personaggi con un sorriso
baldanzoso in faccia. Io intanto prendo posto, e faccio bene perché in venti
minuti la stanza si riempie di gente. C'è grande euforia nell'aria. I presenti
si scambiano sguardi ammiccanti, sorrisi più o meno sinceri, strette di mano
circostanziali. Mi sarei aspettato di vedere più facce giovani, o forse ci
sono, anzi, i giovani intellettuali barbuti sui quaranta, ci sono eccome. Ad un
tratto ecco spuntare i pezzi grossi, i docenti che contano, uno di loro si
siede proprio accanto a me e non posso negare di sentire un lieve piacere per
questo. Quando poi l'aula si è riempita come un uovo sodo, ecco che entra lui,
l'eminente studioso, colui per il quale siamo tutti qui riuniti. La preside di
facoltà, con cappotto rosso, introduce la lezione intitolata "filosofia
e scrittura". Non si dilunga troppo in discorsi inutili, pronti via.
Ricordo
immediatamente di non essere filosofo, e di fare fatica a star dietro
all'insigne professore e al suo specialistico eloquio. In soli dieci minuti ho
già perso la metà dei nomi che vengono citati e allora mi guardo attorno. Per
fortuna non sono l'unico a non capire un fico secco di ciò che sta dicendo il
docente in cattedra, vedo pose scomposte, facce trasognate, occhi persi nel
vuoto. Decido, grazie alla mia solita caparbietà mattutina, di prendere
comunque qualche appunto, ed ecco cosa scrivo: "epoché";
"filosofia come stile di vita"; "tempo e racconto"; "Hegel:
scrittura del pensiero". Riguardo sconfortato le righe che ho appena
buttato giù, e un po' rimpiango di non essere rimasto nel mio letto caldo. Non
riesco ad accontentarmi di essere qui solo per fare presenza; per timbrare il
cartellino, farmi riprendere dalla telecamera e tornare a casa, assieme al 95%
dei presenti, senza un arricchimento che mi ero onestamente aspettato da questa lectio
magistralis. D'altronde, mi dico, queste cose funzionano così, è una
sfilata, un narcisistico pro forma. Proprio quando ho ormai perso ogni reale
speranza, ecco che l'eminente professore cattura la mia attenzione affermando:
"Non c'è pensiero senza scrittura, essa è inevitabile per comprendere la
filosofia. Essa inoltre non si concentra solo su un soggetto, ma quest'ultimo è
sempre doppio o triplo (Marcel Proust). Quando scriviamo, non abbiamo
padronanza assoluta di noi stessi, attuiamo un distanziamento: il soggetto,
scrivendo, si allontana dalla propria soggettività". EPIFANIA. E ancora:
"Il filosofo deve cercare di inventare una lingua straniera, deve forzare
i limiti del suo territorio". EPIFANIA SECONDA. "Il rapporto tra
filosofia e scrittura, tra soggetto e oggetto (o soggetto-soggetto), è il
freudiano gioco del rocchetto: presenza e assenza. Fort (dal tedesco "via,
lontano, partire"), e da ("ecco, qui")". COLPITO E
AFFONDATO. In poche parole, non c'è distanziamento (fort) senza ritorno (da),
la scrittura infatti è e deve essere un test per verificare la distanza da noi
stessi. E' grazie a questa dialettica di forze opposte che nasce il pensiero,
la filosofia, l'arte. Casa non mancherà mai, se prima non la si abbandona. Non
c'è felicità senza dolore, paura senza speranza.
La
lezione finisce, applausi scrosciano spontanei, i pensieri dei più tornano alle
cose di ogni giorno, alle incombenze quotidiane. Velocemente schivo la folla ed
esco dall'edificio universitario, la pioggia continua a cadere insistente e il
mio cappotto, che avevo posato sul termosifone, torna a bagnarsi. "Fort
da" penso. E non mi dà poi così fastidio quest'acqua.